Alla Fondazione Beyeler di Basilea rimarrà aperta fino al 18 maggio 2014 una spettacolare mostra che ha saputo condurre il pubblico a ricostruire, attraverso intense e sapienti sollecitazioni tanto emotive quanto intellettuali, l’esplorazione dei segreti legami fra visibile e invisibile operata da Odilon Redon. Due sono i motivi per cui segnaliamo questa mostra; prima di tutto, perché nelle sale del museo della fondazione svizzera, disegnato da Renzo Piano, hanno trovato posto disegni, stampe e oli presi in prestito dalle più importanti collezioni del mondo e molti dei quali oggi sono conservati in permanenza al Museum of Modern Art e al Metropolitan Museum di New York; e poi, perché abbiamo ritenuto imperdibile l’occasione, ancora una volta, di poter mostrare come sia stato centrale e determinante, nella genealogia europea ed internazionale delle arti visive moderne e contemporanee, l’apporto dell’esperienza storico-estetico-umanistica dell’arte italiana.

Odilon Redon ”Papillons”, ca. 1910, oil on canvas, cm 73,9 x 54,9 The Museum of Modern Art, New York, Gift of Mrs. Werner E. Josten in memory of her husband, 1964 Photo: © 2013. Digital image, The Museum of Modern Art, New York / Scala, Florence
Il percorso dell’artista di Bordeaux, precursore del Simbolismo, dai disegni a carboncino e le litografie alla pittura a olio e al pastello – dal dominio assoluto del nero inquieto alla fioritura di un colore fulgido, sontuoso, irradiante – questo singolare cammino di Redon, dal nero della notte verso la luce del giorno, può essere letto in chiave psicoanalitica come un processo di “individuazione” in senso junghiano, cioè quella ricerca del Sé come integrazione tra personalità conscia e inconscia che costituisce per l’individuo, secondo lo psicoanalista svizzero, la meta di pienezza che oltrepassa l’unilateralità della coscienza; ma può anche essere considerato come un’avventura mistica, un pellegrinaggio dell’anima attraverso le tenebre e l’ignoto verso la comprensione spirituale del mistero. C’è infatti una singolare e netta distinzione, nell’opera di Redon, tra una prima fase esclusivamente in nero, che dura un paio di decenni e dove il colore viene sperimentato solo in alcuni piccoli dipinti che restano privati, e una seconda fase, dal 1900 fino alla sua morte nel1916, dove l’elemento cromatico si fa invece protagonista assoluto esiliando il nero, che lo stesso artista confesserà di essere ormai incapace di usare. Il colore appare perciò come l’approdo salvifico dopo la discesa agli inferi, la conquista di una regione aurorale che sconfigge la notte e il caos, la riconciliazione infine con la vita.

Odilon Redon ”Le Bouddha”, ca. 1905, pastel on paper, cm 90 x 73 Musée d’Orsay, Paris Photo: © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski
Ad accomunare i due periodi, il ricorso sistematico all’ambiguità formale e semantica, l’amore per tutto ciò che è vago, soffuso, indefinito ma raffigurato con l’accuratezza, quasi con acribia, di un disegno esatto. “Il mio disegno ha per oggetto la rappresentazione dell’invisibile con la logica e la verità del visibile” egli afferma nei suoi Scritti del 1898. Diversamente da Moreau e da Puvis de Chavannes che si sono posti prima della scienza, hanno rifiutato la cultura positivista, Redon attraversa tale cultura per spiritualizzarla, per penetrare per mezzo di essa le regioni dell’inconoscibile. Guidato alla comprensione dei processi della natura dal botanico Armand Clavaud, non li disgiunge da una loro interpretazione fantastica, connette il percorso della psiche con la creatività, concilia sensitività romantica e scienza contemporanea. Il mistero per lui nasce dalle cose, trasuda dagli aspetti molteplici del reale. Aiutato dall’incisore Rodolphe Bresdin, sviluppa un linguaggio che, pur difendendo l’osservazione, l’analisi paziente del dato, immette la realtà nel mondo dell’immaginazione. Redon dà vita a esseri improbabili secondo la legge del probabile. Ama indagare la natura minimale, eliminare le differenze fra vegetale e animale, fra naturale e sovrannaturale, coltiva le associazioni di immagini, insegue i possibili rapporti tra i nuovi contenuti scientifici e l’atto creativo, identifica il lato oscuro della natura con l’inconscio, ama la metafora. Ammira la fantasia di Goya e la mezzaluce di Rembrandt, le evocazioni leggendarie di Moreau, la passione e l’audacia di Delacroix a cui renderà omaggio nell’ultima fase della sua attività. In Poe scopre che “ogni certezza è nei sogni”, forse legge anche alcuni testi in voga in quegli anni, per esempio gli studi pionieristici di Maury e De Saint Denis sull’interpretazione dei sogni e sul ruolo dell’inconscio.

Odilon Redon “Le Printemps” 1883, charcoal, chalk, and pastel on paper, cm 53,3 x 37,1 Jean Bonna Collection, Geneva Photo: Patrick Goetelen, Geneva
Ma Odilon Redon, soprattutto, legge il Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, una vera scoperta senza pari, che lo aiuterà, peraltro, nel periodo delle sue incisioni e dei suoi disegni al nero, a superare lo smarrimento della pagina bianca, coprendo il foglio con uno strato uniforme di carboncino che diventa così l’equivalente del vecchio muro di cui Leonardo invitava a fissare le macchie per provocare l’immaginazione e che anticipa, per molti versi, i procedimenti escogitati dal surrealista Max Ernst per dare voce all’inconscio. Odilon legge nel trattato leonardesco che “nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni”, e nel trascolorare del suo sfumato scorge la misteriosa congiunzione, insita nell’atto creativo, tra forze inconsce della natura e consce nelle forme dell’arte.
Un nuovo genere di mimesi estetica comincia a sostituirsi, con l’arte simbolista, ai canoni del mimetismo naturalistico, accademico e convenzionale, nel tempo in cui gli impressionisti sferravano il primo attacco al paradigma plurisecolare dell’arte come imitazione della natura. Un nuovo modo di riconoscere, come di non operare alcun disconoscimento del dispositivo mimetico insito nella mediazione artistica della realtà che, con la pittura di Odilon Redon, si realizza sulla base di un’entusiastica assimilazione all’opera del genio rinascimentale italiano.

Odilon Redon ”Martyr ou Tête de martyr sur une coupe ou Saint Jean”, 1877 charcoal on paper, cm 36,6 x 36,3 Kröller-Müller Museum, Otterlo Photo: Collection Kröller-Müller Museum, Otterlo
Si lasci la parola al grande incisore e pittore francese che, nelle sue Confidenze di Artista del 1894 scriveva: “La mia arte è limitata alle sole risorse del chiaroscuro e deve altresì molto agli effetti della linea astratta, questo agente di ispirazione profonda, che agisce direttamente sull’intelletto. L’arte suggestiva non può fornire nulla senza rivolgersi unicamente ai giochi misteriosi delle ombre e del ritmo delle linee progettate mentalmente. Ah! Non raggiungerò mai un risultato così alto come nell’opera di Leonardo da Vinci! (…) ed è anche attraverso la perfezione, l’eccellenza, la ragione, la sottomissione docile alle leggi della natura che questo genio supremo, degno di ammirazione, domina completamente l’arte delle forme; egli la domina fino alla loro essenza! (La natura) era per lui, come sicuramente per tutti i maestri, la necessità e l’assioma”.
Da rivalutare l’esistenza imprescindibile di un legame che spieghi l’intrinseca necessità di mantenere indiviso il binomio d’arte e di natura e di riconsiderarlo come niente affatto desueto in un contesto d’arte di creazione fantastica, visionaria, immaginativa che con Odilon Redon, fra gli altri, apre all’età moderna senza, ancora, tagliare i ponti con il “Genio” della tradizione. Anzi, leggendo ancora il seguito delle confidenze d’artista di Odilon Redon, è facile rendersi conto dell’inseparabile nesso che unisce insieme mimesi illusionistica della realtà ed espressione libera e creativa dell’arte e, che “non raggiunsero mai un risultato così alto come nell’opera di Leonardo da Vinci”.

Odilon Redon ”L’Araignée souriante”, 1881, charcoal on paper, cm 47,5 x 37 Kunsthaus Zürich, Bequest of Doris Epstein-Meyer © 2013 Kunsthaus Zürich All rights reserved

Odilon Redon ”Fleurs”, 1909, oil on canvas, 81 x 100 cm Private collection
Ad un certo punto delle sue Confidenze Odilon Redon esemplifica il metodo del suo esercizio dell’arte pittorica con un chiarimento molto diretto ed essenziale, scrive: “(…) il mio metodo più proficuo, più essenziale alla mia crescita è stato, l’ho detto spesso, quello di copiare direttamente il reale riproducendo attentamente gli oggetti della natura esteriore in ciò che essa ha di più minuto, di più particolare e fortuito. Dopo uno sforzo compito per copiare minuziosamente un sasso, un filo d’erba, una mano, un profilo o qualsiasi altra cosa appartenente alla vita vivente, o inorganica, avverto l’insorgere di un fermento mentale e sento allora la necessità di creare, di abbandonarmi alla rappresentazione dell’immaginazione. La natura, così dosata e infusa, diventa la mia fonte, il mio lievito, il mio fermento. Da questa origine ritengo vere le mie invenzioni.
L’imitazione della natura, perciò, costituisce il fondamento e l’origine stessa dell’invenzione creativa dell’arte a patto, però, di intendersi bene su quale sia davvero il concetto di natura cui si allude. Il concetto di natura in Odilon Redon come, d’altronde, nella portentosa visione scientifico-artistica della sua sorgente ispirativa o, di Leonardo da Vinci, non è quello ottocentesco e novecentesco che riduce la natura a mera datità, presenza oggettuale resa disponibile, unicamente, come risorsa da sfruttare. Piuttosto, è la nozione umanistico-rinascimentale di Physis a designare la natura con la sua insita potenza di generare forme e vita; natura vivente, per cui imitazione della natura significa che l’arte deve imitare la potenza creatrice della natura.

Odilon Redon ”Vase au guerrier japonais”, ca. 1905, pastel, cm 90 x 72,5 Courtesy Galleri K, Oslo Photo: Courtesy Sotheby’s London

Odilon Redon ”Le Char d’Apollon”, ca. 1910, oil and pastel on canvas, cm 91,5 x 77 Musée d’Orsay, Paris Photo: © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski
Secondo questa nozione, dunque, la natura – come è stata definita dal filosofo romantico tedesco Schelling – è una sorta di poeta cosmico che genera le cose del mondo in maniera inconsapevole e consapevole al tempo stesso, caratterizzandosi come una forza infinita che si specifica in infinite figure finite; il poeta umano si configura come colui che incarna e concretizza meglio il modo d’essere della natura. Nella creazione estetica si ripete il mistero stesso della creazione del mondo da parte della natura. Nell’ultimo periodo della vita di Odilon Redon, metafora della poiesi cosmica, di cui l’arte rappresenta l’emulazione umana, sarà l’immagine del fiore. Il catalogo Wildenstein classifica 267 bouquet, senza per questo esaurire una produzione vastissima e non databile se non a grandi linee, quasi come un calendario dei giorni felici. Sono mazzi che fiammeggiano, pirotecnici e sontuosi, come quelli oggi al Modern Art Museum e al Metropolitan Museum di New York; composizioni floreali che i critici coevi avevano posto in relazione con Ravel o Debussy, e come conferma Charles Sterling nel 1952: “anche quando non dipinge che vasi riempiti di semplici fiori di campo, l’artista riesce, per mezzo dell’arabesco ripetuto o variato dei contorni, il ritmo inatteso dei colori e soprattutto con la qualità irreale del tono – queste grandi macchie fluttuanti e incerte che paiono sul punto di annullarsi nel fondo – a creare io non so quale malessere musicale. Egli evoca l’immagine di una natura decantata e maliosa, che è come parallela a quella vera”.
Immaginazione e spirito analitico, natura e sogno coincidono, come forse mai era accaduto prima, in questi mazzi di fiori dove si dispiega la fragile filigrana dell’anima e, ancora una volta, la malia della metafora: “L’arte – scrive Redon – è un fiore che sboccia liberamente, fuori da ogni regola (…) mi piace questa immagine del fiore come qualcosa di quasi animale: rappresenta me stesso”.
*Beniamino Vizzini nasce a Palermo nello stesso anno in cui escono Minima Moralia di Th.W. Adorno in Germania e L’uomo in rivolta di Albert Camus in Francia. Attualmente vive in Puglia. Fondatore con Marianna Montaruli e direttore della rivista Tracce Cahiers d’Art, curatore editoriale dal 2003 delle Edizioni d’arte Félix Fénéon. Cultore dell’autonomia dell’arte, concepisce l’esercizio della critica secondo le parole di O. Wilde come “il registro di un’anima”, decidendo di convertire questa sua passione in impegno attivo soprattutto sul versante pubblicistico-editoriale della comunicazione intorno all’arte ed alla storia dell'arte. edizionidartefelixfeneon.blogspot.it