Sono giorni tumultuosi, questi, nei quali si decide della sorte che toccherà a RISO, il Museo d’Arte Contemporanea di Palermo e unica struttura del genere in Sicilia: situ to nel nobile palazzo settecentesco appartenuto alla famiglia dei Principi di Belmonte, il museo è divenuto negli ultimi anni centro vivace di attività artistiche e culturali legate al contemporaneo, con un occhio particolare alla realtà siciliana. L’attuale vicenda che riguarda RISO è alquanto confusa e non priva di ombre.
Occorre innanzitutto fare un passo indietro, tornando al mese di ottobre 2011, quando la Comunità Europea destina alla Regione Sicilia 60 milioni di euro di finanziamenti per la cultura del contemporaneo, di cui un’ingente fetta, 12 milioni, destinati al Museo RISO: sarebbero serviti in parte a finanziare numerosi progetti di natura architettonica, in precedenza presentati e approvati, e la restante somma impiegata per le attività specificamente museali durante il biennio successivo. La prima nota stonata della vicenda è però l’ingiustificata mancanza dei nomi di artisti e curatori da coinvolgere nei progetti, decisione motivata dalla direzione chiamando in causa la Corte dei Conti, da cui si attendeva il visto per la successiva stipula dei contratti: questi strani misteri già non si sposavano al meglio con l’idea della gestione di una cifra enorme come 12 milioni di euro, soprattutto sapendo che la strada da percorrere passava attraverso le vie della politica.
Tant’è, messo da parte l’entusiasmo iniziale, il tempo trascorre in vista dell’agognato inizio delle attività che avrebbero coinvolto RISO a partire dal febbraio 2012. Ma in maniera del tutto inaspettata, il 10 gennaio di quest’anno, esplode come una bomba la notizia dell’improvvisa chiusura del museo, annunciata dallo stesso direttore, Sergio Alessandro. Le motivazioni sarebbero da ricercarsi, come recitava il comunicato diramato sul sito e firmato dalla stessa direzione, nella “mancanza di certezze riguardo alle risorse europee destinate al Museo” che di fatto impedirebbero un normale svolgimento delle attività in programma, nonostante queste fossero già state previste e annunciate. Inoltre, l’avvio di un cantiere interno al palazzo per la costruzione di una sopraelevazione di due piani, a quanto sembrerebbe non strettamente necessaria, ostacolerebbe a maggior ragione il prosieguo delle attività espositive addirittura per i prossimi anni.
E tutto questo accade dopo la notizia del ricevuto finanziamento dei 12 milioni di fondi europei; ma, se il direttore Alessandro si vede costretto a decidere la chiusura del museo causa mancanza di liquidità, che fine avrebbero fatto tutti questi soldi? Sarebbero, a quanto pare, bloccati in Regione per motivi non chiari, con il rischio che vengano deviati verso qualche interesse ‘altro’ o addirittura rimandati indietro alla Comunità Europea per mancato utilizzo. Immediatamente si costituisce a Palermo, in maniera del tutto spontanea, un movimento autonomo di ‘indignati’ formato da artisti, storici dell’arte, professionisti, semplici cittadini, allarmati dalla notizia e intenzionati a fare chiarezza sulla vicenda; viene diramato un comunicato in cui si chiede a gran voce a Gesualdo Campo, Dirigente Generale del Dipartimento regionale dei Beni Culturali, e a Raffaele Lombardo, Presidente della Regione Sicilia, di fare chiarezza sulla sorte dei milioni stanziati per le attività del museo e bloccati in Regione non si sa per quale cavillo burocratico. Ma, di contro, arriva una secca smentita da parte dell’amministrazione regionale: l’Assessore ai Beni Culturali e dell’Identità siciliana Sebastiano Missineo nega categoricamente che il museo si avvii alla chiusura e anzi fa oggetto il direttore Alessandro di un provvedimento disciplinare per «interruzione di pubblico servizio e danno all’erario»: i fondi sarebbero fermi in Regione nell’attesa di terminare la fase di istruzione dei progetti che, una volta giudicati conformi alla normativa vigente, sarebbero stati finanziati come previsto; anzi, aggiunge l’Assessore, a questi 12 milioni andrebbe sommata un’ulteriore cifra di circa 500.000 euro proveniente dalla Regione, per le spese amministrative del Museo.
Uno scorcio del Museo Riso a Palermo
Si scatena quindi una feroce polemica che investe i vertici della politica isolana, polemica in cui i principali attori protagonisti sono, oltre agli stessi Campo e Missineo, anche il leader del Grande Sud, Gianfranco Miccichè. A questo punto, il colpo di scena: è proprio Miccichè a complicare ulteriormente la vicenda, sempre più oscura, avanzando l’ipotesi di presunti interessi che riguarderebbero addirittura il Dirigente dei Beni Culturali Gesualdo Campo. Costui, secondo quanto dichiarato dallo stesso Miccichè in un’intervista all’Ansa, sarebbe arrivato ad una sorta di braccio di ferro con Museo e Regione per meri vantaggi personali, volendo piazzare a capo di RISO la propria moglie, una storica dell’arte non molto conosciuta e per giunta ottocentista.
Intanto l’assemblea convocata per la sera del 13 gennaio dal comitato cittadino contro la chiusura del Museo salta improvvisamente: ancora Campo, in una nota inviata qualche ora prima al Direttore Alessandro, sottolinea la necessità di rispettare l’orario di chiusura del palazzo, prevista per le 19, e di fatto nega l’utilizzo dei locali. Nei giorni successivi procede la diatriba tra Alessandro, Campo e Missineo, tra dichiarazioni, smentite, denunce, minacce e ancora davvero poca chiarezza, nell’indifferenza della stampa nazionale: tutto sembra sul punto di essere inghiottito dalle sabbie mobili della burocrazia politichese siciliana, come a voler ancora una volta sottolineare, se ce ne fosse bisogno, quanto questa terra trascini al macero quelle realtà che potrebbero diventare le sue risorse migliori, se non fossero invischiate tra le sordide trame di un dettato politico che si riduce ad una squallida lotta di poteri, dove un monumento di bene comune viene usato come merce di scambio: la delibera che doveva fare del Museo Riso una Fondazione, svincolandolo di fatto dalle pastoie burocratiche di certa politica autoreferenziale e fine a se stessa, giace in qualche cassetto degli uffici regionali dall’aprile 2010.
Intanto, a seguito della denuncia presentata da Campo nei confronti di Alessandro, quest’ultimo si difende sostenendo che l’incertezza causata dal mancato sovvenzionamento non consentirebbe ad un’istituzione museale che si rispetti di andare avanti con la programmazione, assumendo degli impegni con altri enti o artisti. Resta, tuttavia, la questione della collezione permanente del museo, una raccolta di circa 52 opere che annovera tra i suoi pezzi alcuni grandi nomi dell’arte contemporanea nazionale e internazionale e che giace ammassata in casse di legno, negata di fatto alla fruizione del pubblico: i cittadini si chiedono il motivo del paradosso per cui RISO debba interrompere le attività espositive, pur non chiudendo definitivamente e quindi continuando a stipendiare i suoi impiegati, e non, piuttosto, valorizzare la propria pur esigua collezione al fine di mantenere in servizio un museo da 100.000 visitatori l’anno.
L’Assessore ai Beni Culturali Missineo, continuando a smentire categoricamente una eventuale chiusura del Palazzo, ha parlato anzi dei progetti futuri che riguarderebbero RISO e in particolare di “iniziative che partiranno a breve e che colmeranno l’attuale mancanza di programmazione”. Quali fossero tali iniziative, purtroppo, è stato chiaro qualche settimana dopo tale dichiarazione, nei primi giorni di febbraio: in un comunicato inviato dall’ormai noto Gesualdo Campo alla Direzione di RISO si leggevano le linee-guida per una programmazione, rimediata alla meglio e redatta da tecnici piuttosto che da esperti d’arte, che getterebbe nello sconforto qualsiasi amante del contemporaneo: un museo che si era faticosamente messo in evidenza in una realtà crudele, poi, come quella siciliana, ed era bene o male riuscito non solo a sopravvivere ma a diventare una promessa nel campo delle istituzioni di tal genere, si ritroverà a divenire mero contenitore di esposizioni realizzate raccattando qua e là materiale vario, purché si spenda poco, secondo i dettami emessi.
Resta l’incognita di quei 12 milioni di euro spariti dall’orizzonte di RISO e finiti chissà dove. Riguardo al movimento autonomo spontaneamente sorto per i diritti del Museo, dopo l’annullamento della riunione del 13 gennaio non se ne sa più nulla. L’unica cosa certa dell’intera vicenda sembra essere la totale mancanza di chiarezza che coinvolge, in un modo o nell’altro, tutti i principali protagonisti di questa storia che oscilla tra la tristezza e lo squallore: alla fine, non si sa da che parte stiano i buoni e dove i cattivi, tutto sembra confuso nelle nebbie di politicanti e di una burocrazia malata che usa il patrimonio pubblico come strumento di potere, dimenticando il bene dei cittadini e la valorizzazione delle ricchezze artistiche e culturali, lasciando crescere il sospetto che dietro questi squallidi teatrini ci sia qualcos’altro che parrebbe proprio non riguardare il mondo della cultura.
Nell’attesa di conoscere ulteriori esiti della vicenda, viene da pensare a quei Viceré spagnoli che un tempo (lontano?) agivano con la convinzione di poter disporre a proprio piacimento dei beni dell’isola: Federico De Roberto, alla fine del suo romanzo più noto, metteva in bocca al protagonista queste parole: “La nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa”.