Esce nelle sale cinematografiche Albatross di Giulio Base: biografia del primo giornalista italiano ucciso su un campo di battaglia dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Almerigo Grilz, nato a Trieste nel 1953, cadde a Caia, in Mozambico, il 19 maggio 1987, mentre filmava uno scontro armato tra i guerriglieri Renamo e i governativi Frelimo, nel contesto di quella che è stata la guerra civile più lunga del continente africano; scoppiata nel 1977, due anni dopo l’indipendenza, e terminata dopo oltre un milione di vittime nel 1992 con un’intesa incerta, ha avuto bisogno di arrivare al 2019 per più solidi accordi di pace, stipulati un mese prima della visita di papa Francesco.
Tre voci ci rievocano quel dramma: lo stesso Giulio Base e gli amici Gian Micalessin e Fausto Biloslavo, triestini come Grilz e cronisti di guerra, che portano nel cuore Almerigo. È Micalessin che spiega da dove arriva il titolo, Albatross, un nome spuntato con leggerezza in un pomeriggio dell’estate 1983: “Fausto Biloslavo ed io siamo a casa di Almerigo, prepariamo il nostro primo reportage in Afghanistan. Non lavoriamo per nessuno, non abbiamo accrediti, ci paghiamo quella “vacanza intelligente”, come la chiama Almerigo, con dei lavori di fortuna. Precari diremmo oggi. Siamo tre sconosciuti ragazzi, sogniamo di diventare giornalisti infilandoci nel conflitto più importante di quei primi anni ‘80. “E se qualcuno ci chiede per chi lavorate?” La domanda gira per la stanza da dieci minuti, i cervelli friggono alla ricerca di un’abbreviazione in grado di confondere le idee… possibilmente in inglese. Metto le mani sul Collins di Almerigo, lo sfoglio dalla lettera A. Ci arrivo subito. Albatross suona bene. L’idea di due grandi ali sempre in viaggio, in volo sopra le tempeste del pianeta si lega bene alle iniziali di “press agency”. E suona molto simile ad Associated Press o simili… Per l’Afghanistan è perfetto. Almerigo e Fausto concordano. Apriamo una società, due mesi dopo partiamo per l’Afghanistan con due cineprese super8 di Almerigo – il racconto senza le immagini non restituirà mai la verità della guerra, diceva – la mia macchina fotografica Pentax e quella di Fausto“.
“L’obiettivo era raccontare le guerre dimenticate – aggiunge Biloslavo – e, al tempo, vedevamo ancora il mondo in bianco e nero, buoni e cattivi; poi le guerre, viste da vicino, ci hanno insegnato che i cattivi son ben distribuiti da entrambe le parti”. Paura di morire? “Il motto di Almerigo era why not?, non si tirava mai indietro. Albatross era, leggendariamente, l’uccello che non poteva essere abbattuto dai marinai, pena la disgrazia ed il naufragio. Durante il primo viaggio, in Afghanistan, a dorso di mulo a fianco dei mujāhidīn, cantavamo Vita spericolata – brano con cui, nello stesso 1983, Vasco Rossi aveva partecipato a Sanremo” (si classificò penultimo con quello che poi divenne un inno), “ma abbiamo capito con l’esperienza che la paura va controllata, facendola diventare un campanello d’allarme per “annusare” i pericoli. Con Almerigo avevamo parlato, durante i reportage, su cosa fare se fossimo caduti sul fronte dell’informazione. Lui voleva essere sepolto sul posto e per questo abbiamo lasciato le sue spoglie in Mozambico”.
Micalessin aggiunge che “eravamo consapevoli e consideravamo la morte un’eventualità. Come si vede anche nel film, non solo ne discutevamo, ma avevamo anche definito le regole di condotta nel caso qualcuno fosse ferito o peggio”.

Come è arrivata all’attenzione di Giulio Base questa vicenda? Il regista risponde che è stata la società di produzione One more pictures, con cui aveva collaborato in precedenza, ad avanzare la proposta. “Inizialmente ho recalcitrato, temevo fosse una “patata bollente”, difficile da trattare, ma, dietro insistenza, ho approfondito e ho dato ragione: Almerigo mi ha conquistato e ho pensato che non era giusto che la sua storia passasse sotto silenzio”.
Il giornalista triestino è stato una figura controversa, dato il suo netto schieramento politico a destra, militante del Fronte della Gioventù e poi del Movimento Sociale, ma Base si è tenuto lontano dal ruolo di giudice: “Mi piacerebbe che questo film fosse un invito alla sospensione di giudizio e fosse visto senza preconcetti. Non ho voluto dipingere un santino, ho solo raccontato, senza connotazioni di parte, un uomo che, con il suo mestiere, ha incarnato la libertà di pensiero, il coraggio, la ricerca della verità. La stampa, primo pubblico e recensore, ha ben compreso questa volontà, purtroppo le distorsioni sono arrivate, prevedibilmente, dai recessi più bassi della rete, dal lugubre intestino del web”.
Oltre a restituire al pubblico una biografia avvincente, Giulio ha stretto un ottimo rapporto con Micalessin e Biloslavo: “La tenacia con cui hanno sostenuto nel tempo il ricordo di Almerigo è commovente. E, lo dico senza piaggeria, nell’affiancare la lavorazione del film si sono rivelati splendidi: pur essendo loro i portatori della memoria, non hanno mai prevaricato, sono rimasti sempre un passo indietro, sono intervenuti sempre con tatto e garbo. Due gentiluomini”.
Nel film di (e con) Giulio Base, Grilz è interpretato da un ben somigliante Francesco Centorame, accanto a Giancarlo Giannini e Gianna Paola Scaffidi. Il personaggio di Giannini, Vito Ferrari, di fantasia ma ricalcato su persone reali, è l’anima a specchio di Grilz: antagonista fin dai tempi delle lotte politiche giovanili nei caldi anni Settanta, ma obiettivo e rispettoso, al punto da esserne portavoce – ormai anziano, affermato giornalista – della memoria.
Un aggettivo per Almerigo: “indimenticabile”, per Biloslavo, “inarrestabile”, per Micalessin, che nel 2002 è stato autore di un toccante documentario, L’albero di Almerigo, in cui, accompagnato dai colleghi Franco Nerozzi e Giancarlo Coccia, è andato alla ricerca della tomba dell’amico, scoprendo che riposa sotto un grande e antico albero di mutongo, che ha preso il suo nome. “Se io muoio, lasciatemi lì dove sono stato colpito”, sono parole di Almerigo. Così è stato: raggiunto da un proiettile, muore sul colpo. “Mi sporgo fuori per filmarli: non è facile, occorre stare appiattiti a terra perché le pallottole fischiano dappertutto… alzare troppo la testa può essere fatale”: una frase del suo diario – minuzioso nei disegni e nei testi – è stata profetica. I guerriglieri trasporteranno il suo corpo per oltre 50 km nella boscaglia, fino al sito di sepoltura.
Recentemente è stato presentato Missione Mozambico 2025, altro documentario realizzato da Davide Arcuri sul viaggio di Biloslavo e Micalessin, tornati in quella terra per lasciare sull’albero di Almerigo una targa commemorativa, nel contesto di una significativa cerimonia, officiata dai due capivillaggio della zona, uno della Frelimo e uno della Renamo, in uniforme, in segno di riconciliazione fra le parti e di rispetto per il defunto.
Dal 2024 è stato istituito un premio giornalistico, promosso dall’associazione “Amici di Almerigo” e, piccola ma precorritrice iniziativa, nel 2013 a Verona fu organizzata una mostra fotografica dal titolo “Per sempre in guerra, Uomini in armi”, con gli stessi protagonisti qui citati. “Almerigo era il nostro compagno di avventure ed il nostro fratello maggiore, con cui abbiamo condiviso passioni e lavoro; ci dava sicurezza, pensavamo non sarebbe mai caduto e invece è stato il primo ad andarsene”. Il figlio di Gian Micalessin, nato nel 2017, si chiama Almerigo.