Una storia lunga molti secoli, che è sempre stata raccontata in maniera sommaria o superficiale e che ora un gruppo di accademici internazionali vuole correggere alla luce delle più recenti e accurate ricerche storiografiche. Questo il nuovo libro Jews and State Building: Early Modern Italy and Beyond, che è stato presentato martedi sera alla Bookhouse del Primolevi Center da Bernard Dov Cooperman, Serena Di Nepi e Germano Manfreda, i tre studiosi che ne hanno curato la pubblicazione.
Nel corso di due ore, gli oratori hanno disegnato un avvincente quadro dei complessi ma stretti rapporti economici e sociali che legavano e condizionavano la classe dominante e la piccola minoranza ebraica che viveva sul loro territorio, all’interno o fuori dai ghetti.
“Il progetto è nato nel 2019, durante due convegni che si svolti all’Università del Maryland John Hopkins e alla Sapienza di Roma – spiega Serena di Nepi – con l’idea di mettere a confronto i filoni di ricerca di due gruppi di storici che di solito non si parlano. Cioè da una parte gli studiosi della storia degli ebrei, che finora è stata sempre letta nella traiettoria della controriforma e della persecuzione, e dall’altra gli esperti di un tema già studiato in Italia ma molto meno sentito in America, che è quello dello Stato prima dell’unità d’Italia. A scuola però si studiava il principe, la corte, la diplomazia, l’assolutismo, ma molto meno la formazione degli Stati. Quello che volevamo approfondire è l’idea politica, il rapporto tra i poteri e gli ebrei negli Stati pre-unitari”. Di Nepi insegna storia moderna alla Sapienza di Roma e ha scritto diversi libri sulla storia degli ebrei italiani negli anni dei Ghetti.
In una lunga carrellata, gli storici hanno cercato di spiegare come a partire dal tardo Medioevo, durante molti secoli in cui l’intolleranza era la norma, i poteri politici si confrontavano, sul piano legislativo e finanziario, con una piccola minoranza che viveva nel loro territorio e come, contemporaneamente, questi rapporti influenzavano e condizionavano sia i loro Stati che la vita degli ebrei.
La prima indispensabile carrellata è quella di Isabella Lazzarini, insegnante di Storia medioevale all’Università di Torino, che traccia un quadro dei regni, delle municipalità, delle repubbliche e delle signorie dell’Italia tardo medioevale e rinascimentale e delle problematiche con cui tutti devono confrontarsi.
Il passo successivo è quello di Bernard Dov Cooperman, professore di Storia Ebraica all’Università del Maryland e uno dei massimi studiosi della materia negli Stati Uniti, che nel suo capitolo ha raccontato come l’organizzazione delle comunità ebraiche italiane nel tardo medioevo fosse contemporaneamente il risultato delle richieste arrivate dall’esterno e delle esigenze di un consistente e autoritario sistema di gestione interno. Un rapporto complesso, in cui l’economia aveva una parte importante, ma non unica, e che avrebbe influenzato profondamente la nascita dell’Europa moderna.
“Viviamo in un momento intellettualmente stimolante e una serie di certezze che avevamo si sono vanificate – spiega Dov Cooperman durante la sua presentazione –. Pensavamo che ci fosse una storia italiana e una storia ebraica, adesso ci rendiamo conto che non si può parlare di storia italiana senza includerla”. Per lui, che non è italiano, lo stimolo a studiare la storia degli ebrei italiani è arrivato, ha raccontato, soprattutto dopo aver scoperto la ricchezza degli archivi pubblici italiani, gelosamente conservati e digitalizzati non solo in Italia ma anche in Israele e negli Stati Uniti. Anche se purtroppo alcuni si sono persi durante la Seconda Guerra Mondiale, testimoniano come spesso gli ebrei ricorressero alle corti piuttosto che ai tribunali rabbinici per risolvere le dispute, secondo Dov Cooperman.
Nei vecchi libri di storia, hanno osservato i presentatori, la creazione dei ghetti è stata spesso raccontata in modo sommario e qualche volta addirittura sbagliato, dimenticando le differenze nei tempi e nelle regolamentazioni, i problemi locali e i diversi sviluppi politici e finanziari di ogni singolo Stato. Uno storico famoso come Cecil Roth, solo per fare un esempio, aveva scritto nei suoi libri che il primo ghetto era stato creato a Roma, quando a istituirne uno per prima era stata in realtà la repubblica di Venezia.
Proprio su questi temi si è concentrata nel libro l’attenzione degli altri studiosi. “Volevamo rileggere la storia in termini politici e non soltanto di persecuzione e non guardare soltanto ai grandi centri – dice di Nepi –. Io per esempio ho raccontato una storia di cui non si sapeva nulla, quella del processo a Bernardino Campello, il commissario apostolico incaricato da papa Paolo IV nel 1555 di far applicare la bolla Cum Nimis Absurdum nei piccoli centri dello Stato Apostolico”. Il funzionario, completamente corrotto, racconta la studiosa, aveva fatto il suo lavoro prima a Spoleto e poi in altre piccole città, come Frosinone e Latina, arrestando e minacciando di tortura tutti gli ebrei e poi rilasciandoli dopo il pagamento di una somma di denaro. Denunciato alla Curia di Roma dalle vittime, era stato poi processato tra 1559 e il 1561.
“Tutto questo – continua di Nepi – dimostra che era molto facile costruire il ghetto a Roma o ad Ancona, sotto il controllo delle grandi autorità, ma era molto più difficile nelle piccole città e quanto sia difficile controllare il territorio in uno Stato che si sta costruendo”.
Il libro, lungo oltre 400 pagine, si ferma al Rinascimento, quando agli ebrei verrà riconosciuta la parità dei diritti, ma serve a dimostrare che al lungo processo che ha portato all’unità d’Italia e alla vittoria di uno Stato liberale e secolare abbiano contribuito quelle talvolta complesse e talvolta tese relazioni con una piccola minoranza sparsa lungo il territorio.