Zero Day, la miniserie Netflix in sei episodi diretta da Lesli Linka Glatter e prodotta da Eric Newman, rappresenta l’ultima evoluzione dell'”hackercore”, l’incubo contemporaneo del collasso istituzionale in chiave digitale. Il titolo fa riferimento alle “zero-day vulnerabilities”, falle di sicurezza sfruttate dagli hacker prima che vengano corrette. Un concetto potente, perfetto per una narrazione intrisa di paranoia: pochi secondi di cyberattacco possono mandare in frantumi la società moderna. Sessanta secondi di blackout e 3.402 vittime.
Alla soglia degli 82 anni, Robert De Niro affronta la sua prima serie TV americana nel ruolo di George Mullen, ex presidente degli Stati Uniti richiamato dalla presidente in carica, Evelyn Mitchell (Angela Bassett), per guidare la Zero Day Commission, un comitato con poteri extragiudiziali incaricato di indagare sull’attacco informatico che ha paralizzato il Paese. Ad affiancarlo, troviamo la fidata capo di gabinetto Valerie Whitesell (Connie Britton) e l’ex collaboratore Roger Carlson (Jesse Plemons).
La struttura narrativa segue il classico schema delle storie di potere. Il protagonista è spesso un uomo con una missione morale, caduto in disgrazia e pronto a rientrare in gioco. Il pubblico sa già che il vero nemico non sono gli hacker, ma le forze interne al sistema: tradimenti, corruzione, burocrazia, gli oligarchi digitali, personaggi ispirati a figure come Elon Musk e Peter Thiel. Zero Day non si discosta da questo modello. La politica si consuma tra stanze oscure e monologhi solenni, alternando spiegazioni didascaliche a slogan ridondanti (“La storia ci sta guardando”). Il riferimento al Patriot Act e alla sorveglianza di massa rimane sullo sfondo, mentre la sceneggiatura evita di prendere una posizione chiara.
De Niro conferisce gravitas al ruolo di un leader disilluso, in lutto per una democrazia che si sgretola sotto il pretesto di un autoritarismo presentato come necessario per garantire stabilità. L’ultimo presidente a godere di “sostegno bipartisan”, tormentato da fantasmi – reali o metaforici. Un figlio morto per overdose, visioni, frasi enigmatiche nel buio. È una mente in declino o una vittima di un’arma neurologica? Il dubbio è parte del racconto. Allo stesso modo, la figlia Alexandra (Lizzy Caplan), giovane deputata idealista, appare spesso ridotta a un espediente narrativo per enfatizzare il conflitto generazionale. Evan Green (Dan Stevens), teorico della cospirazione, incarna lo scetticismo paranoico di un’America sempre più diffidente verso le proprie istituzioni.
Zero Day non cerca una risoluzione definitiva. La sua intuizione più riuscita è che, nell’era digitale, la verità è sempre frammentata e manipolata. Non importa tanto chi siano i colpevoli, quanto il modo in cui media, politica e opinione pubblica costruiscono il racconto attorno a loro.