Non sparate su Sanremo. Nel bene e nel male, la kermesse canora più seguita e più pazza del mondo è lo specchio fedele (oppure deformato) di un’Italia che si ritrova unita in certi giorni fatidici, dall’annuncio del 29 gennaio 1951 di Nunzio Filogamo in poi. C’era una volta la famiglia seduta accanto alla radio, quindi i gruppi d’ascolto stretti sul divano davanti alla tivù, adesso tocca allo streaming e ai social dominanti fra tablet e cellulari. Il senso però non cambia. Comunque sia trasmesso, il Festival era e resta un simbolo dell’identità nazionale: epopea, racconto, spettacolo. Storia di popolo.
In fondo Nel blu, dipinto di blu inaugurava nel ’58 il boom economico. Gigliola Cinquetti, mito senza età per amare, ha rappresentato i turbamenti degli adolescenti perbene nel 1964. Attraverso i Rokes, i Dik Dik, l’Equipe 84 e i Camaleonti siamo entrati di colpo nell’era della contestazione. La coppia Celentano-Mori con Chi non lavora non fa l’amore – era il 1970 – anticipava di quattordici anni l’Ariston occupato dagli operai Italsider. Poi sono arrivati Lucio Dalla e Gesù bambino senza padre, la barca che non va più di Orietta, l’Italia del riflusso e l’italiano vero di Toto Cutugno. E finalmente il rock duro dei Maneskin a petto nudo, Victoria compresa. Non c’è dubbio: le novità musical-socio-politiche sono passate tutte da Sanremo. Anche se a un certo punto il motore s’era inceppato. Gianni Borgna, storico della canzone, alla vigilia del Duemila avvertiva: “L’Italia è cambiata e il Festival non se n’è accorto”. Finché l’insospettabile Amadeus ha rovesciato il tavolo e sono affiorati i testi della generazione in cerca d’autore: droga, depressione, disordine, amore malato, sesso occasionale (copyright Tananai).
L’edizione numero 75 s’annuncia ora come l’ennesimo ribaltone, la vena intimista in pole position a scapito dei brani di denuncia. Bennato aveva torto: non sono solo canzonette, il cambiamento è radicale. Riecco dunque le “trite parole” di cui parlava Saba, mentre le parole dette male e maledette – Giorgia nel 2024 – finiscono in cantina. Segno dei tempi, perché le parole contano eccome. Massimo Arcangeli, docente all’università di Cagliari, linguista e sociologo della comunicazione, le ha catalogate con il suo team: dalla prima edizione del Festival fino all’attuale, tutto è documentato sul sito www.leparoledisanremo.it. Numeri e diagrammi applicati ai testi per comporre il mosaico del Belpaese, sempre meno bello. II censimento non è una curiosità statistica e stop. È la spia del momento a confronto con il passato e la proiezione sul futuro. Il termometro della lingua, del carattere e del costume: cultura o sottocultura che sia.
“Tutto finisce in canzonetta”, sosteneva Beaumarchais. Proust, specialista del tempo perduto e di nostalgiche madeleine, ammoniva: “Non disprezzate la cattiva musica. Il suo posto è nullo nella storia dell’arte, ma immenso nella storia sentimentale della società”. Quanto a Pasolini, stroncava il Festival ammettendo però che “poche cose hanno una potenza rievocativa pari alle canzonette, anche brutte”. Qual è l’aria che tira oggi? Peschiamo nell’archivio di Arcangeli. Se capita ancora di volare – 111 volte Modugno incluso – nessuna dice più grazie dei fiori, malgrado Fiorella Mannoia nell’87 invocasse: Nelle sere tempestose / portaci delle rose . Resiste saldo l’amore, cantato 1131 volte. Amori stupidi e inutili per Francesco Renga e Nek. Perduti come quelli di Nilla Pizzi. Gli amori che cadono giù di Sandro Giacobbe, dallo strano sapore per Al Bano o feriti secondo Cutugno. Interessante il raffronto tra il duo Vale Lp-Lil Jolie, nuove proposte, e la Cinquetti d’antan: Dimmi tu quando sei pronto per fare l’amore / prova a scendere un secondo ma senza timore. Dunque l’intoppo non sta più nei condizionamenti esterni, quanto in un rapporto difettoso.
Per fortuna c’è sempre il cuore, che compare in 841 testi: quello di Rose Villain fa click boom boom boom per 37 volte, urge il defibrillatore. Il corpo è al centro dell’attenzione. Occhi, mani, viso, bocca, gambe. E a sorpresa il culo che vanta sette presenze – a proposito: ciao ciao, citazione La Rappresentante di Lista. Amaro è il bilancio di Fabio Concato: Adesso cosa faccio a 50 anni / dovrei dare quel che resta del mio culo. E colpisce il lamento di Concido (Concido, chi era costui?): Ci vuole culo / l’ho sempre detto io / che nella vita / ci vuole culo / un po’ di culo. Difficile dargli torto.
Caso a parte è il rebus uomo-donna. Come son fatti i maschi lo dice l’esordiente Maria Tomba, categoria giovani: Guardami gli occhi e non le poppe. Ma l’universo femminile è spesso sotto accusa. Oltre al duo Fedez-Masini con l’evergreen Bella stronza, l’epiteto compare cinque volte. Cantato da Noemi (Ho sbagliato a parlarti / scusami perché / sono quella stronza / che non cambierà per te) e da Elodie (Dici sono una grande / stronza che non ci sa fare / una donna poco elegante). E se Ermal Meta è rassegnato (Mi hai strappato l’amore di bocca / ma ogni tanto una stronza ci tocca), colpisce l’ammissione di Daniele Silvestri: Mi sono innamorato di una stronza. Il termine tira forte anche quest’anno, con Marcella Bella a rivendicarne orgogliosamente il diritto: Stronza, forse / ma sorprendente / una mina vagante / sono una combattente.
Infine un medley del Sanremo che va a cominciare. Rkomi porta una parola new entry: Esco dall’algoritmo / merda d’artista / Esco da un’altra festa / esco dall’algoritmo. Lucio Corsi si rifà al gergo dei pusher: uno spaccino in fuga da un cane lupo. L’ossessione del telefonino abbinata all’incomunicabilità è riassunta nel dilemma di Gaia: Chiamo io chiami tu / dimmi dove sei / dove dove dove dove. Interessante notare che il poker di dove batte il doppio triplete di Tony Renis con i suoi quando quando quando e grande grande grande. A ciascuno il suo, tanto alla fine vince sempre quel motivetto: Tutti cantano Sanremo. E così sia.