Si può avere o non fede in Cristo e nella sua chiesa, o, come dice di sé Andrea Angeli all’inizio del suo Fede, ultima speranza – Storie di religiosi in aree di conflitto
(Rubbettino, 2024) essere soltanto un “cattolico della domenica”: di fronte alle storie che testimoniano la capacità di amore delle persone che si donano a Dio, non si può non prestare ascolto e attenzione, e farsi delle domande sulla natura del rapporto che quelle persone stabiliscono con la gente, a prescindere da appartenenze, religioni, genere, cultura.
I racconti di Angeli riguardano religiosi in aree di conflitto, definiti dall’autore “l’ultima speranza per tante popolazioni in difficoltà” di fronte a contesti spesso tragici. Ne scrive scegliendo tra le vicende delle quali è stato testimone nei trent’anni trascorsi alle Nazioni Unite come addetto stampa. Nel suo lavoro di funzionario Onu, afferma nella prefazione il cardinale Camillo Ruini, si è comportato da “vero cristiano […] cercando di fare del bene e, all’occorrenza, di aiutare i rappresentanti della Chiesa cattolica e di altre chiese e religioni a svolgere la propria missione”. Con un garante tanto autorevole, la testimonianza di Angeli acquista un particolare valore, anche sotto il profilo storico e documentaristico.
Non c’è praticamente continente che non venga narrato nel libro, dato che purtroppo i conflitti armati, nella contemporaneità, allignano ovunque. E ovunque l’autore raccoglie le testimonianze che confermano la sua tesi su come (senza nulla togliere ad altri pastori religiosi che, nella narrazione, compaiono) le donne e gli uomini della chiesa romana costituiscano la speranza estrema di chi soffre. Dal Cile di Pinochet, al Medio Oriente dei rifugiati e senza terra palestinesi, al sud est asiatico dei cristiani che celebrano la Messa sul Mekong, alle tragedie di Kosovo e Nassiriya, l’occhio e la penna dell’autore hanno occasione di testimoniare l’impegno continuo che la chiesa cattolica, attraverso i pastori locali e/o la diplomazia vaticana, attua nei teatri di conflitto.
Scrive Angeli: “Spesso non si realizza che il pastore di una chiesa locale deve proteggere il suo gregge mentre un diplomatico vaticano deve tenere aperto un canale di dialogo con le autorità, anche nelle peggiori circostanze. Sono entrambi religiosi, fanno parte della stessa squadra, ma giocano in ruoli diversi”. Si aggiunga, alla differenziazione correttamente richiamata, che lo status diplomatico delle nunziature apostoliche consente operazioni di protezione impossibili al clero locale.
A questo proposito, risulta illuminante il caso di Manuel Noriega tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990, che Angeli narra con dovizia di particolari. Noriega era a capo di Panama, a quel punto ricercato dalla Delta Force statunitense per traffico di droga e riciclaggio. Chiese protezione all’extraterritorialità della nunziatura apostolica, e l’ottenne. Per sloggiarlo dalla rappresentanza vaticana, le Forze speciali utilizzarono altoparlanti che amplificarono per giorni e notti un’assordante musica rock. Dopo le proteste di Roma, il baccano fu sospeso, ma a quel punto Noriega era sufficientemente cotto da consegnarsi a chi voleva processarlo.
L’episodio accaduto a Betlemme, uno dei territori vicini a Gerusalemme sotto amministrazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, è anch’esso conosciuto, ma non per questo la vicenda offerta dall’autore risulta meno interessante. Siamo nel 2002 e Israele sta portando avanti una delle tante operazioni in terra palestinese. Sei giornalisti italiani, che stazionano davanti alla basilica della Natività, finiscono nel mirino delle forze israeliane. Vengono subitaneamente riprotetti attraverso la bassa porticina d’ingresso nel sacro luogo, da padre Ibrahim Faltas, il francescano egiziano, noto a chi sia stato a Betlemme per la conoscenza dell’italiano e la capacità di gestione delle crisi. Dentro i giornalisti troveranno un bel numero di insorti palestinesi rifugiati. Padre Ibrahim riuscirà a risolvere pacificamente la situazione e a far sloggiare gli israeliani dopo 39 giorni d’assedio. I sei giornalisti italiani uscirono dopo 48 ore dalla trappola nella quale si erano cacciati.
La vicenda più drammatica narrata da Angeli è probabilmente quella che riguarda l’Afghanistan, dove l’autore arrivò alla fine del 2007. Da poche ore a Kabul, è informato della strage nell’hotel di massima sicurezza nel quale è previsto alloggi. Una bella fortuna non trovarvisi al momento dell’attacco suicida. Bravi sacerdoti e brave suore non mancano neppure in quel paese dove il 99% della popolazione professa l’islam. L’autore ne documenta l’attivismo a favore della popolazione locale e dei cristiani che si trovavano a operare nel paese. La memoria va in particolare ai padri Barnabiti e, tra questi, a padre Giuseppe Moretti, capace di avviare un istituto scolastico giuridicamente statale (Tangi Kalay – Scuola della Pace) che contò sino a 3.000 allievi di ambo i generi e fu sostenuto da donazioni in arrivo da contingenti Nato e altri donatori esteri. Quando cominciò la lunga lista delle vittime Nato di attentati, la cappellania di padre Giuseppe non si fece sorprendere, assistendo e confortando.
Andrea Angeli ha avuto modo di richiamare le sue esperienze professionali, di grande interesse per chiunque segua le cronache del mondo contemporaneo, in altri quattro libri. Questo suo ultimo, citando nuovamente Ruini, “Forse ancor più degli altri […] non deluderà … i suoi lettori.”