Diversi anni dopo il remake de Il Re Leone, arriva Mufasa: The Lion King, il prequel Disney che racconta la storia del leggendario padre di Simba. Diretto da Barry Jenkins, il film ha debuttato nelle sale italiane il 19 dicembre e negli Stati Uniti il giorno successivo, affermandosi come un autentico trionfo dell’animazione iperrealistica. Il film ripercorre le origini di Mufasa, un cucciolo orfano, smarrito e solo, fino al giorno in cui incontra Taka, un giovane leone destinato a ereditare una stirpe reale. Tra i due nasce un legame fraterno, un rapporto che cresce tra alleanze e tensioni, in un mondo in cui le gerarchie sembrano scolpite nella roccia. Il film dialoga con temi universali, come il peso del lignaggio e la condizione di outsider, il tutto punteggiato da una retorica fiabesca che sfiora il predicatorio.
La regia di Barry Jenkins, purtroppo, sembra soffrire sotto il peso delle rigide convenzioni del sistema hollywoodiano. Se Moonlight e If Beale Street Could Talk avevano dimostrato la sua straordinaria capacità di esplorare l’animo umano, qui il regista appare trattenuto dai limiti imposti dal formato animazione “live-action”. Ogni filo d’erba della savana, ogni goccia di rugiada sulle criniere leonine testimonia il livello di perfezione tecnologica raggiunto. Tuttavia, questo splendore visivo ha un prezzo: la progressiva disumanizzazione del racconto.

Anche la musica, pilastro fondamentale dell’identità del franchise, appare meno incisiva rispetto al passato. Le nuove composizioni di Lin-Manuel Miranda, in collaborazione con Mark Mancina, faticano a reggere il confronto con classici intramontabili come Hakuna Matata o Can You Feel the Love Tonight. Non è solo una questione di melodia: l’energia e l’impatto emotivo che caratterizzavano le canzoni originali sembrano affievoliti, rendendo difficile a brani come Voglio da sempre un fratello trovare il proprio posto nel pantheon musicale Disney.
Mufasa rischia di trasformare l’animazione in un esercizio sterile, dove ogni emozione è calcolata al millimetro e ogni lacrima progettata per scendere con precisione chirurgica. Se le immagini incantano lo sguardo per la loro meraviglia, resta il dubbio su dove sia finita quella libertà creativa che un tempo affidava all’immaginazione dello spettatore il compito di completare ciò che non era detto. L’attenzione maniacale ai dettagli testimonia senza dubbio un risultato tecnologico straordinario, ma al tempo stesso solleva una questione fondamentale: fino a che punto il controllo assoluto delle emozioni può sopprimere quella magia imprevedibile che rendeva l’animazione un’esperienza autentica e irripetibile?