L’America di oggi sembra poco propensa ad esportare nuovi gruppi di danza. Il Ceder Lake Contemporary Ballet, con sede a New York e subito apprezzato a Spoleto e in Europa, ha chiuso i battenti nel 2015, prima della pandemia. Per fortuna ci ha lasciato in eredità Crystal Pite, la coreografa canadese oggi punta di diamante soprattutto nel Vecchio Continente. Quanto alle grandi istituzioni storiche come il New York City Ballet o l’American Ballet Theater, paiono ben consapevoli della loro importanza: lavorano molto, confidano nel digitale e al momento non viaggiano all’estero. Fanno eccezione l’Alvin Ailey American Dance Theater, tornato a Parigi dopo sette anni di assenza, la Parsons Dance e la Lines Ballet di Alonzo King, cui è toccato l’onore di chiudere con Deep River il nutriente festival “TorinoDanza 2024” in una due giorni di applausi infiniti.
Icona della danza mondiale, molto amato a San Francisco, la città sede dal 1989 della sua compagnia, e dal 2001 anche di una affollatissima scuola ad essa collegata, l’afroamericano King, nato in Georgia nel 1952, è richiestissimo negli States. Nell’estate scorsa il suo nuovo balletto ha debuttato al Kennedy Center of Performing Arts di Washington e li è stato ripreso e inserito poco prima della partenza per l’Italia nella serie televisiva “Next at City Center della Pbs” tuttora sul web.

Qui anche solo se in alcuni dei 13 capitoli ben distinti di cui si compone, appare assai trasparente l’interazione tra la straordinaria Lisa Fisher e i dodici danzatori della Lines Company. Chissà se nella tournée che guiderà la compagnia da Portland (21-23 novembre), a Dallas (13 dicembre), da Scottsdale (primo febbraio 2025), a Mesa Verde in Arizona (7 febbraio) ancora in Europa e poi a Spokane (29-30 marzo) e a Seattle (3-5 aprile), King, che punta a un ritorno a New York, promesso a Torino, porterà con sé quella vincitrice di un Grammy Award. La Fisher intona il canto gospel ispiratore del titolo Deep River mentre il compositore e pianista Jason Moran si è curato dell’intera partitura musicale con precise intromissioni ebraiche, indiane e persino con un “Kaddisch” da Deux mélodies hébraïques di Maurice Ravel.
Il “fiume profondo” muove danzatori come in uno spazio liquido in costumi zigrinati, succinti, vellutati ricamati: sempre eleganti anche quando sono gonne per gli uomini. La troupe di King ha davvero un nome appropriato: il suo linguaggio punta sui movimenti lunghi e lineari degli arti che si estendono nello spazio. Quando le braccia si alzano sopra la testa, si gettano verso il basso, lateralmente o in diagonale, formano linee rette, non le morbide curve dei ports de bras del balletto classico. Anche quando raggiungono la parte posteriore del corpo, tagliano la schiena come un rasoio, partendo dalla spalla. E le grandi aperture delle gambe si sviluppano verso il cielo, mentre gomiti, ginocchia o polsi possono piegarsi in angoli retti o acuti che conferiscono una precisione netta e punteggiata.

I 13 episodi riconoscibili dai diversi accompagnamenti musicali, si susseguono senza soluzione di continuità e con un vocabolario che di rado deraglia dalle su nominate linee lunghe e dunque appare sempre sin troppo simile. La danza surclassa la coreografia, come se non ve ne fosse bisogno: di questi tempi l’errore è comune e fatale nell’area moderno-contemporanea, ma per King non è mai stato che un modus operandi , capace di innalzare i danzatori ad assoluti deus ex-machina anche in questa pièce. Infatti persino quando siedono a terra, o stanno in piedi e osservano l’andirivieni di passi a due, assoli, terzetti magnificamente interpretati, non trapela in loro il senso di una collettività in attesa di un mondo migliore. Piuttosto c’è ammirazione per l’amore “tecnico” che evapora da quella coppia.
I due campioni- Adji Cissoko e Shuaib Elhassan – si lasciano scivolare a terra, si attorcigliano, si ripiegano e poi s’impennano con le gambe femminili alla punta dei capelli. Considerando l’essere umano come apice della creazione, King afferma che Deep River ci ricorda che “l’amore può renderci liberi: è l’oceano da cui ci siamo sollevati, in cui nuotiamo e in cui un giorno torneremo”. Il suo spiritualismo non conosce limiti, nonostante la discrepanza tra pensiero e fluida danza quasi priva di coreografia.
Se si considera che Deep River è stato creato in un periodo di pandemia durante il quale il Lines Ballet ha lavorato in “bolle” di quarantena, in studi, aree erbose all’aperto e in un desolato deserto dell’Arizona, si può capire come dall’isolameno fisico ed emotivo, sia nata una fervente determinazione a continuare a muoversi anche senza particolari empatie reciproche. Tuttavia, verso il finale, l’appassionato assolo di Babatunje Johnson su Lift Every Voice and Sing, incute l’idea di una sfida vittoriosa. E si lascia ammirare forse più di qualsiasi altro pezzo per la sua forte e necessaria espressività.