L’immagine del Chrysler Building, grattacielo in stile art déco di New York, svetta sulla copertina dell’ultimo libro di Antonio Monda, Incontri ravvicinati (La Nave di Teseo). Una raccolta di 150 ritratti di personalità, da Marina Abramović a Philip Roth, da Meryl Streep a Martin Scorsese, da Cate Blanchett a Jovanotti. Ogni ritratto è un frame di un film che narra l’evoluzione del costume negli ultimi decenni, tra cinema, arte, musica e letteratura. In poche parole Monda, docente di cinema presso la New York University, possiede l’arte di raccontare l’arte. Con eleganza stilistica, la stessa che lo caratterizza, e con profondità di introspezione, delinea ritratti che sono per lo più affondi nell’umanità di personaggi conosciuti, intervistati, frequentati, o semplicemente sfiorati nel corso della sua carriera internazionale di organizzatore culturale. Con affetto e ironia rievoca episodi e aneddoti significativi, ad esempio Ingrid Bergman che lo promosse suo commesso personale quando lavorava in un negozio di scarpe sulla Madison Avenue. Con intensa lucidità ricrea le ambientazioni degli incontri descritti, scava nel passato dei personaggi, ricostruisce la loro ascesa, ne giustifica la grandezza, dà voce inedita al loro talento. Si ha la sensazione di incontrarli realmente questi personaggi, come ad una festa, e a loro ci si affeziona facilmente.
Spesso i ritratti nascono proprio in occasione di feste, da incontri avvenuti nell’atmosfera rassicurante delle due case che ha cambiato a New York. Luoghi di ritrovo nel quale artisti e intellettuali si sono sentiti e tutt’ora si sentono accolti e protetti: “in questi anni, molti di loro sono diventati miei punti di riferimento e in alcune occasioni amici che hanno segnato in maniera indelebile la mia vita”, rivela l’autore nella premessa.
“Non ho mai conosciuto una persona così presente con costanza nella vita delle persone a cui tiene. Lui che dovrebbe avere meno tempo di chiunque altro sembra avere un tempo illimitato per la cura degli altri, per farli sentire così al sicuro da confidarsi”, afferma l’amico Jonathan Safran Foer nella toccante introduzione.
Nell’introduzione al libro Jonathan Safran Foer ti descrive come critico, romanziere, saggista, regista di lungometraggi e documentari, autore di podcast, professore, curatore, direttore di festival cinematografici e letterari. In quale di questi ruoli ti rispecchi di più?
In realtà faccio soltanto una cosa, comunico delle idee declinandole in maniera diversa, insegnando all’università, scrivendo saggi e romanzi, dirigendo festival e programmando dei film.
I personaggi che racconti hanno a che fare con l’arte e tu stesso ti esprimi attraverso varie forme d’arte, dalla scrittura alla regia. Quale dei linguaggi artistici che hai praticato ti è più congeniale?
Sicuramente la scrittura. Ho fatto anche il documentario e il lungometraggio ma lavorare con le parole mi entusiasma non meno che lavorare con le immagini. Nel libro ripetutamente sottolineo come alcune personalità che sono descritte criticamente da molti come artigiani siano in realtà degli artisti. Intendo dire che spesso si raggiunge l’arte non cercandola.
Quando ti sei scoperto scrittore?
Da sempre ho voluto farlo. Nella narrativa devo molto a Gian Arturo Ferrari, leggendario direttore editoriale della Mondadori che mi ha incoraggiato a farlo. Fino ad allora, nel 2006, scrivevo soltanto saggi o articoli, poi ho iniziato a scrivere romanzi.
Racconti che Richard Dreyfuss spiegava che il cinema, anche quello di evasione, può avere un ruolo catartico e di redenzione rispetto alle offese della vita. Sei d’accordo? E quali sono i film della tua vita?
Sono assolutamente d’accordo. Il cinema, soprattutto quando è di livello, ci immerge in un mondo completamente nuovo, dove però riconosciamo delle assonanze, delle affinità. Un mondo che dialoga con noi e tira fuori da noi le cose migliori o le più nascoste. I film della mia vita sono Luci della città di Charlie Chaplin, Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, Il cacciatore di Michael Cimino, Le notti di Cabiria di Federico Fellini, e Il padrino di Francis Ford Coppola.
Nella premessa al libro affermi: “le mie conoscenze, le amicizie e tutto quanto ho costruito dal punto di vista lavorativo sono il risultato dell’abbandono della comfort zone”. Cosa intendi?
Sono andato via dall’Italia a 30 anni e ho messo in discussione tutto quello che avevo costruito. Avevo girato un film e fatto dei documentari, non ero ancora affermato ma avevo un inizio di carriera. Negli Stati Uniti sono completamente ripartito da zero facendo addirittura il super, una via di mezzo tra il portiere di stabile e l’amministratore di condominio. Tutto il contrario della comfort zone: una condizione di scomodità che però ti stimola a migliorare, evolvere, conquistare.
L’incontro o l’intervista che vorresti ancora fare?
Avrei voluto intervistare Cormac McCarthy, che purtroppo è venuto a mancare. Ho appena sfiorato Spielberg, l’ho intervistato ma non posso dire di conoscerlo. Lo considero un genio del cinema e mi piacerebbe molto costruire un rapporto con lui. Per ora mi ha mandato un libro con una splendida dedica.
Wittgenstein diceva “lascia al lettore quello di cui egli è capace”. Cosa vuoi che traggano i tuoi lettori da questo libro?
Sono appena stato a presentare il libro a Napoli e Alessandro Barbano, ex direttore del “Messaggero” e del “Mattino”, ha detto che è una mia autobiografia. Spero che venga fuori qualcosa di me.