“Non mi riconosco in questa televisione. Ai miei tempi era diverso, si dice così con un po’ di retorica. Ma i tempi cambiano e bisogna accettarlo. Se devo dare un giudizio, quel poco che vedo adesso ha più ombre che luci: pochi programmi ben fatti, tanti da dimenticare. E avrei qualcosa da dire anche sulle conduttrici”.
A parlare è Enza Sampò, torinese, 85 anni portati senza nasconderli, la grande signora del piccolo schermo. Con il garbo, l’intelligenza sottile e tanto altro ha bucato il video fin da quando la Rai era neonata. Com’è cambiata dal 3 gennaio 1954, inizio delle trasmissioni? Nessuno può raccontarlo meglio di lei che è stata un’innovatrice. Ha tenuto banco per mezzo secolo dal 1957 fino al 2008, il momento in cui ha infilato l’uscita. Anticipando i tempi con le inchieste giornalistiche, i talk, la rassegna stampa, le storie verità. Colta, ironica, raffinata, elegante. Grande personalità, fascino androgino, mai invadente, sofisticata eppure popolare: una primadonna che entrava nelle case con leggerezza.
Troppi brutti programmi rispetto a ieri?
“Trovo incomprensibile l’invasione di chef stellati e cuochi dilettanti a tutte le ore e in tutti i canali. E detesto la cronaca nera morbosa che imperversa. La gente è attratta dagli spettacoli macabri, d’accordo, ma proprio per questo la televisione dovrebbe far crescere il pubblico anziché stimolarne i bassi istinti. Invece vincono sempre i cattivi: l’odio sui social, la caccia al nemico per strada e la volgarità che alza gli ascolti sul video”.
Qual è l’aspetto peggiore?
“Per me la cosa più grave, la vera scorrettezza nei confronti dello spettatore, è la superficialità di molte trasmissioni: hanno una scaletta identica, fatta in fotocopia, addirittura si spartiscono gli stessi invitati. Cambi canale e non te ne accorgi: non esiste la minima differenza tra l’uno e l’altro”.
Gli ospiti fanno parte del gioco?
“È così soprattutto nelle tribune politiche: ciascuno recita una parte in commedia. È il teatrino delle maschere, spinte a darsi battaglia in rappresentanza dei diversi schieramenti secondo un copione già scritto”.
Servirebbe un ritorno alla cosiddetta televisione educativa?
“Direi formativa. Se mi volto riconosco la profonda funzione etica della nostra tivù. Il maestro Manzi insegnava a leggere e scrivere, l’intrattenimento era una palestra del buongusto, il varietà faceva cultura. Gli autori erano personaggi di grande spessore, in tutti c’era l’ambizione a far bene e la selezione era severa. Ho lavorato con Barbato, Giorgio Vecchietti, Pastore, Maurizio Costanzo: tutt’altro stile. Una volta i dirigenti erano intellettuali, oggi sono manager e l’audience vale più dei contenuti”.
Tra quei dirigenti negli anni ’50 c’era Umberto Eco che divenne il suo fidanzato.
“Stavamo insieme malgrado avesse sette anni più di me. Faceva il militare, scendeva dal tram in divisa e mi prendeva sottobraccio. Io mi vergognavo a uscire con quel soldatino, apparivo già in tivù e facevo la figa”.
<Che tipo era?
“Onnisciente, affabulatore, divertente. Mi faceva leggere i nuovi filosofi e Lolita, frequentavamo intelligenze come Vattimo, Berio, Leydi, Furio Colombo. A un certo punto però ho capito che con lui sarei stata sempre sotto esame e ci lasciammo”.
Quando era arrivata negli studi di Torino?
“Nel ’55 feci il provino per annunciatrice spinta da Maurizio Corgnati, amico dei miei, uomo eccezionale che più tardi avrebbe sposato Milva. Avevo sedici anni e non passai la selezione. Il giudizio fu: brunetta tutto pepe adatta a programmi per ragazzi. Non mi sono scoraggiata e due anni dopo ho presentato Anni verdi, che era un po’ il Non è la Rai dell’epoca”.
Avevate il televisore in casa?
“Figuriamoci. Guardavamo Lascia o raddoppia? dai vicini”.
I suoi sono stati contenti di ritrovarla nel tubo catodico?
“Mi assecondarono. Siamo una famiglia di origini piemontesi: papà era ufficiale di Marina, mamma cantante lirica e maestra di taglio. Anche a me piaceva lavorare le stoffe e cucire: ho studiato Economia domestica, materia per le fanciulle che a scuola non esiste più”.
Com’erano le donne Rai?
“Quando sono entrata quasi non esistevano: siamo state delle pioniere inventandoci un modo di lavorare. Chi cominciava aveva due grandi modelli. C’era Elda Lanza che è stata la prima presentatrice, più tardi giornalista e scrittrice di gialli. Femminista, studi alla Cattolica e allieva di Sartre alla Sorbona: era esperta di galateo e divenne docente di Storia del costume mollando l’ente di Stato. Se n’è andata cinque anni fa”.
L’altra?
“Bianca Maria Piccinino che ha compiuto cent’anni a gennaio. Entrò in Rai come autrice, ma siccome era laureata in biologia esordì da divulgatrice scientifica a fianco di Angelo Lombardi ne L’amico degli animali. Poi si è specializzata nella moda di cui è stata la massima esperta. È stata la prima donna a condurre il telegiornale”.
Quale trasmissione le ha dato la notorietà?
“Nel ’59 ho fatto l’inviata di Campanile sera. Era la sfida tra due paesi di Nord e Sud, un viaggio nel cuore della provincia italiana. Mike Bongiorno conduceva in studio, io ed Enzo Tortora eravamo collegati dalle piazze”.
Grande successo?
“Dovettero darmi la scorta perché lo sport preferito degli uomini era toccarmi il sedere in mezzo alla folla. Arrivavano lettere piene di insulti e disegni osceni. È stata un’esperienza umiliante”.
Capiva perché?
“Il pubblico maschile non mi accettava. La società era sessuofobica e io mi presentavo come una donna fuori dai canoni tradizionali della maggiorata. Portavo i pantaloni, i capelli a caschetto e questo sconcertava: sono stata accettata soltanto dopo la maternità, perché ero diventata rassicurante”.
Quei tempi sono passati.
“Fortunatamente sì, è stata una battaglia lunga. Il rischio oggi è cadere nell’eccesso opposto. Trovo sbagliato considerare l’uomo un nemico: le lotte femminili giuste sono quelle per la parità dei ruoli e della busta paga, non le quote rose che considero svilenti”.
Che cosa pensa delle sue colleghe di oggi?
“Ne ammiro la disinvoltura. Sono belle e hanno il piacere di farsi vedere tali, magari con una scollatura generosa. Non c’è paragone. Loro si muovono a loro agio sul tacco 12, mentre la mia generazione portava le ballerine per praticità. Sono ragazze nate con la televisione e sanno farla con naturalezza estrema: brave, bravissime. Anche troppo”.
Troppo?
“Non apprezzo il desiderio di esibirsi che le rende standardizzate. Senza acuti. Fatte salve le dovute eccezioni, che esistono, le conduttrici parlano di continuo, vogliono apparire brillanti per dimostrare di saperci fare. Così però oscurano l’interlocutore: a volte ho la netta sensazione che facciano una domanda senza ascoltare la risposta. Ecco, manca la capacità dell’ascolto. E manca quell’istante di silenzio, il vuoto che fa tanta paura ma che invece è fondamentale per rivelare la persona davanti a te e alla telecamera”.
Una definizione per le mattatrici della tivù attuale. Milly Carlucci?
“Istituzionale. Un classico che va bene per tutte le stagioni. È l’imprenditrice di sé stessa, sempre sorridente ma con una malizia mascherata”.
Mara Venier?
“Empatica. Riesce a comunicare facilmente, a volte però eccede nella confidenza con l’ospite: tutti amici di zia Mara, tutti dello stesso giro, una comitiva volemose bene che si ritrova nelle serate romane”.
E infine Maria De Filippi.
“Donna azienda. Somiglia agli impresari teatrali di una volta: fa tutti i ruoli, è bravissima e il suo cinismo è bilanciato dal saper ascoltare gli altri”.
Mezzo secolo di Rai: se tornasse indietro?
“Non ho nostalgia della tivù, ma ho amato molto questo mestiere. Non avrei potuto fare altro”.