Che cosa mangiamo a colazione, a pranzo, a cena? Dove prendiamo gli ingredienti per preparare il pasto? La scelta varia tra mercato rionale, negozio di prossimità, supermarket. E quando non cuciniamo, ricorriamo ai prodotti precotti. Oppure facciamo un salto nella gastronomia sotto casa o al ristorante. Da dove viene quel cibo? Quanto realmente sappiamo di ciò che mettiamo nello stomaco? Yeast Photo Festival fa domande, interroga coscienze e conoscenze, fruga nelle nostre abitudini a tavola. From planet to plate, dal piatto al pianeta, è il tema della mostra diffusa in Salento tra Matino e Lecce fino al 3 novembre: quindici progetti internazionali di fotografia e arti visive applicate al cibo, per riflettere sul rapporto tra l’uomo e il mondo che abita. E che sciupa. Fotoreportage, docufilm, installazioni video mettono in luce una verità: quel che quotidianamente portiamo in tavola, salvo eccezioni virtuose, causa serie conseguenze sul piano climatico, culturale, economico, sanitario.
“Dobbiamo essere consapevoli che i veleni agricoli sono spesso utilizzati per la crescita stabile di cereali e ortaggi. E’ importante sapere che in qualche parte della Terra ogni giorno si combatte per l’acqua che fa crescere un avocado. Queste situazioni sollevano problemi sociali e ambientali urgenti”, spiega Edda Fahrenhorst, direttrice artistica della manifestazione. La sensazione è che siamo al punto di non ritorno: l’Antropocene del cibo. Antropocene è il termine che meglio rappresenta la nostra epoca geologica — ufficialmente chiamata Olocene e iniziata per convenzione 11.700 anni fa — quella in cui l’uomo con le sue attività ha enormemente modificato (quasi sempre in peggio) il territorio, il mare, gli oceani, le strutture geologiche e il clima. Deriva dal greco antropos e kainos, rispettivamente essere umano e recente. Quale impatto ha avuto l’Homo Sapiens sull’equilibrio della Terra? E quando è cominciato questo processo?

A proporre la definizione “era antropozoica” è stato lo scienziato Antonio Stoppani: fu lui il primo a scriverne nel 1873. Altri — ricercatori e pensatori, teologi e premi Nobel — ne hanno seguito le orme. Per alcuni studiosi il test nucleare Trinity, diretto da Oppenheimer il 16 luglio 1945 nel deserto del Nuovo Messico, è l’avvio di Antropocene. Industrializzazione, uso massiccio dei combustibili fossili, deforestazione, allevamenti e agricoltura intensivi, deforestazione: ecco le caratteristiche negative del cambiamento. Che in ultima analisi finiscono dentro il piatto. Qualche esempio? L’avocado è forse il caso più significativo. La salsa guacamole consumata durante il Super Bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football, ma a che prezzo. Nel Messico si concentra il 40 per cento della produzione mondiale, ottenuta con lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche e l’uso indiscriminato di fertilizzanti e pesticidi che contagiano falde sotterranee, fiumi e torrenti. Se a questo aggiungiamo che il business è infiltrato dai cartelli della droga, il quadro è completo. Eppure l’affare avocado è talmente redditizio — il mercato vale 15 miliardi di dollari — che conviene chiudere gli occhi: Colombia, Haiti, Repubblica Dominicana, Sri Lanka e Marocco hanno quadruplicato la superficie delle piantagioni.

Sistemi di produzione, filiere, consumi, abitudini che mettono in discussione il patto ancestrale tra noi e la natura: Yeast Photo Festival è l’obiettivo degli artisti-detective puntato su tutto questo e tanto altro. “Siamo ciò che mangiamo”, sosteneva il filosofo tedesco Feuerbach. Gli alimenti rivelano le caratteristiche di un individuo, ma se non ne conosce l’origine è un’analisi falsata. Così la mostra diventa anche guida all’apprendimento. Una mano senza più unghie è il simbolo in bianco e nero del fotoreportage di Pablo Ernesto Piovano, che ha esplorato in lungo e in largo l’Argentina rivelando l’impatto degli agrofarmaci, in particolare il glifosato, sulla salute dei contadini. Carolina Arantes spiega invece come e da chi viene prodotta molta della carne che mangiamo. Il vitello bianco da esposizione vale quanto il collier di diamanti sullo sfondo della foto: una bistecca su quattro nel mondo proviene dal Brasile, che ne esporta quasi due milioni e mezzo di tonnellate per un commercio stimato dieci miliardi di dollari. E agli allevatori non importa granché dei costi altissimi sul clima.
Ci sono però anche storie esemplari. Come la resistenza alla devastazione dell’ecosistema negli scatti di Nicoló Lanfranchi, che raccontano la vicenda del popolo Asháninka. Gli indigeni hanno piantato in Amazzonia milioni di alberi per preservare la propria cultura: le terre depredate sono diventate una foresta che genera cibo, frutta e piante medicinali. Dall’altra parte del pianeta, il focus dei fotografi Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni è sulle coltivazioni tropicali che crescono in Sicilia, a dimostrazione del buon adattamento ai cambiamenti climatici. “Noi esseri umani siamo come formiche, il nostro impatto sul pianeta è irrilevante. Credo nel potere della natura, nel prendersi cura della Madre Terra”, chiosa l’imprenditore messinese Francesco Verri.

La fine ideale del percorso è comunque la collezione di Jean-Marie Donat: immagini di gente comune, persone sopraffatte dall’ipertrofia alimentare riprese nel contesto sociale d’appartenenza. La sfilata delle T-bone steak sul barbecue in giardino e i giganteschi tacchini cotti in forno nel Giorno del Ringraziamento sono la perfetta esposizione della felicità consumistica made in Usa. Ma pensare che nel piatto muore un pezzetto del nostro mondo è un concetto difficile da mandar giù.