Sveglia alle cinque di mattina tutti i giorni, la vita californiana di Alessandro Marino, 29 anni, scorre tra cinema, natura e meditazione. “Sono stato molto influenzato dallo stile di vita californiano, nonostante i primi anni di lotta e adattamento. Ora vedo la vita e l’arte in maniera diversa”, rivela l’attore e regista in un’intervista da Los Angeles in cui ricostruisce il suo percorso artistico.
“Adesso sono grato a quel ragazzo di ventidue anni che ha fatto quella scelta e che ha seguito un istinto senza un programma”, racconta Marino guardando ai suoi inizi nel mondo del cinema. Già autore della commedia romantica Brindisi, sta finendo di montare un corto girato al Sequoia National Forest, il famoso parco delle sequoie giganti in California, e ha in progetto di trarre un lungometraggio dal corto Marry Mary, girato con l’attrice Pauline Chalamet.
Come sei arrivato al cinema e cosa ti ha portato negli Stati Uniti?
È iniziato tutto all’ultimo anno di università, stavo studiando economia all’Università Bocconi. Ho condiviso con mia madre il fatto che stavo iniziando a lavorare in finanza e non era quello che volevo fare. Avevo giocato a calcio per dieci anni e c’era una parte più sportiva, più istintiva, che cercava uno sbocco. Prima di partire per Londra per il programma Erasmus mi trovavo a Milano e sono finito al Festival del Cinema di Venezia a vedere la prima di The Danish Girl. Adesso dopo sette anni riesco a spiegarlo meglio, è stato un momento interno in cui qualcosa si è rotto o è cambiato. Sono uscito dal cinema e ho esclamato “voglio fare recitazione”, senza neanche sapere cosa fosse. Poi andai a Londra e dissi all’amica che mi aveva accompagnato al Festival di Venezia di trovarmi una scuola di recitazione. Era un corso base, già il primo giorno ebbi le stesse sensazioni che avevo avuto per dieci anni giocando sul campo da calcio. Dopo quella classe di due mesi ho chiamato una mia amica che era a Los Angeles, mi ha consigliato la New York Film Academy, e come studente internazionale c’era la possibilità di avere il visto. Tornai a casa e dissi ai miei genitori che volevo migliorare il mio inglese per diventare un manager migliore, ho inventato un po’ di scuse e sono finito a fare un corso estivo alla New York Film Academy, prima della mia laurea. Dopo la mia prima classe di teatro ho detto a me stesso: “Questo è quello che voglio fare e lo farò per sempre”. Sono tornato a casa e l’ho comunicato ai miei genitori che hanno pianto per un paio di mesi. Poi hanno capito che mi ero innamorato di questo mestiere e hanno scelto di supportarmi.
Come definiresti il tuo percorso artistico fin qui? Ci sono state difficoltà?
Ci sono state e ci sono ancora tante difficoltà, economiche e burocratiche. Poi due anni di pandemia e un anno di sciopero degli attori. E difficoltà legate al mio accento, che limitano il numero dei ruoli che posso fare. Negli ultimi anni il mio percorso è stato cercare valore nella fatica, nella difficoltà. E poi trovare un modo di esprimermi e capire in cosa credo e come percepisco la vita.

Sei regista, attore e sceneggiatore. In quale di queste identità artistiche ti rispecchi di più?
Ho studiato recitazione, questo mi ha permesso di entrare nel mondo del cinema ed è diventata la mia professione. Dopo il mio primo lungometraggio ne ho scritti altri due, e ho fatto anche tre cortometraggi. Il cortometraggio ti dà la possibilità di esprimere parte della tua anima anche solo per dieci minuti. Adesso la maggior parte del mio tempo è dedicata alla scrittura, e so che voglio fare la regia di quello che scrivo.
Brindisi è un lungometraggio che hai scritto e dedicato alla tua città.
L’idea è nata dall’incontro con la mia amica Nika Burnett, anche lei sceneggiatrice e regista. Entrambi usiamo il cinema come lo intendeva Robert Bresson, come strumento di ricerca interna. Prima abbiamo lavorato a un cortometraggio da lei scritto e diretto, poi abbiamo pensato a un’ulteriore collaborazione. Io le ho consigliato di vedere Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica, lei mi ha consigliato Pierrot le fou di Jean-Luc Godard. Ci siamo incontrati per scrivere un lungometraggio ed è nato Brindisi, che riprende la struttura a episodi del film di De Sica con due personaggi ispirati a quello di Godard. L’abbiamo girato in Puglia con un budget con cui di solito si fa un cortometraggio. A marzo del 2020 avremmo dovuto presentarlo a un festival in Italia, poi a causa della pandemia è finito su Amazon. Il film presenta tre coppie recitate da me e da Nika, proprio come Mastroianni e la Loren, alla ricerca della loro identità. È stato un progetto che ha mi ha permesso di comunicare alla mia famiglia che non stavo giocando.
Quali sono i tuoi modelli?
Mi ispiro ad artisti che lottano per l’espressione di qualcosa che sentono internamente. Fare un film è un miracolo, apprezzo lo sforzo iniziale di un regista o uno scrittore, stimo il tentativo di realizzare un’opera d’arte. Mi ispiro molto a Nikos Kazantzakis (scrittore e drammaturgo greco) quando parla dell’espressione interna spirituale dell’arte. Impazzisco per Andréj Tarkóvskij e Robert Bresson. Tra i più recenti Alice Rohrwacher, ho visto recentemente La Chimera e mi è piaciuto molto. In tutti questi riconosco una battaglia interna per cercare di esprimere qualcosa.
Hollywood può avere una parte distruttiva e una parte creativa.
Quando vieni a Los Angeles hai tutti gli eccessi, legati alla fama, al denaro, al divertimento, alle droghe, all’intrattenimento. La parte artistica del cinema viene sommersa da tutte queste realtà esterne che brillano ma non hanno né anima né creazione. Basta uscire un paio di volte per distrarsi: la bella ragazza, le sostanze stupefacenti o questa ricchezza che ti confonde e ti fa mirare a qualcosa che non ha sostanza e non ha profondità. Sono ancora qui perché sono riuscito a focalizzarmi su quello che è importante. È una carriera insicura con molte incertezze economiche e assume valore solo quando diventa un percorso artistico di crescita e di condivisione.

Trovi che negli Stati Uniti per chi si occupa di arte ci siano più opportunità e che gli artisti godano di un maggiore incoraggiamento rispetto all’Italia?
Dare un giudizio sugli Stati Uniti non sarebbe corretto perché ho vissuto solo a Los Angeles. Se sette anni fa avessi iniziato questo percorso in Italia con la vicinanza della mia famiglia e di tanti amici avrei sofferto di più. Venire qui, invece, mi ha regalato la solitudine, che ti fa soffrire ma che è il regalo più bello che tu possa fare a te stesso come artista, essendo l’unica opportunità in cui riesci a far cadere ogni identità. Ci sono molti più artisti e c’è un supporto emotivo maggiore nel voler fare questo mestiere. C’è anche un supporto economico, purtroppo solo privato. In Italia invece c’è anche un supporto di tipo statale, l’arte è resa un servizio pubblico, come dovrebbe essere. Sicuramente qui ci sono più opportunità ma tutte legate al denaro, quindi il successo commerciale è messo al primo posto rispetto all’impatto artistico.
Dove sta andando il cinema secondo te?
Penso che il cinema si stia avvicinando sempre di più alla pittura. Vai a vedere un film come se andassi a una mostra, un’esperienza unica, per vedere la grande opera d’arte o il grande blockbuster. Qui vedo tanti giovani attori, quelli con cui sono cresciuto negli ultimi sette anni, con tante idee e che vogliono fare cinema, e ognuno lo fa in maniera diversa. C’è frustrazione nel non potersi esprimere, che può diventare energia e creatività. Il cinema sta soffrendo, a Hollywood sta venendo a mancare la qualità, che in Europa è più elevata. Allo stesso tempo possono crearsi enormi opportunità, l’arte si esprime nei momenti di difficoltà.