La non-carriera di Vivian Maier come fotografa non fa di lei un’artista di calibro eccezionale meno dei contemporanei a cui è paragonata. Henry Cartier-Bresson, Diane Arbus, Robert Frank, Weegee, sono tutti stati celebrati in vita per il loro contributo alla fotografia del Ventesimo secolo e il loro lascito culturale e artistico ha avuto il giusto tempo di sedimentare e prendere spazio per essere studiato, apprezzato, esposto, reso iconico, collezionato.
Il balzo di un anonimo passante sopra una grande pozza, il suo riflesso nell’acqua e lo sfondo della Gare St. Lazare ha immortalato lo sguardo di Cartier-Bresson. Diane Arbus, sebbene anche per lei il riconoscimento avvenga postumo il suicidio nel 1971, dedica la sua vita a cercare di emergere nella carriera artistica fotografica e iconici rimarranno per sempre i suoi ritratti e non convenzionali. Uno dei meno controversi, ad esempio, è il ritratto delle due piccole gemelle: vestito nero, bavaro grande bianco e fascia bianca a tirare dietro i capelli lasciando una grande frangetta cadere fino agli occhi. Robert Frank, dopo aver vinto la prestigiosa Guggenheim Fellowship nel 1954, rende memorabili i suoi 83 scatti che raccontano la società del secondo dopoguerra, raccolti in The Americans. E che dire, se non rimanere affascinati dalla dedizione con cui Wegee, equipaggiato di una piccola radio a banda corta, ascolta attentamente le comunicazioni delle autorità che intervengono nelle losche notti della Lower East Side, dove si precipita per immortalare le scene più stravaganti.
A differenza di tutti gli altri, gli scatti, ma anche l’autrice stessa, che per più di quaranta anni lavora come tata, vivono nell’anonimato fino a poco dopo la sua morte nel 2009. Solo due anni prima, dopo mancati pagamenti di affitto di un magazzino, tutti i suoi negativi, registrazioni e 8 mm vengono messi all’asta e acquistati da un collezionista di fotografie sullo sviluppo urbano di Chicago e nel 2008 pubblicate su Internet. Dopo un anno, Vivian Maier raggiunge anche lei lo status di artista. Sarà forse proprio questo suo anonimato a definire il suo linguaggio fotografico? Unseen Work, attualmente in mostra fino a settembre nell’imponente edificio di Fotografiska a New York, potrebbe suggerire esattamente questo.
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Nata nel 1926, Vivan Maier passa la maggior parte della sua vita Chicago e New York, ma è tra i primi anni ’50 e gli anni l’inizio degli anni ’90, che è “attiva” come fotografa lasciando dietro di sé circa 100.000 negativi. L’archivio pare sia ricostruito per il 90%. Non è tanto la quantità che impressiona, quanto la tipologia dei suoi scatti. A differenza di tanti, Maier continua a utilizzare per la maggior parte una Rolleiflex, che è una di quelle fotocamere rettangolari che permette di scattare tenendola davanti al bacino e guardando il mirino dall’alto. È interessante che anche la scelta della macchina fotografica sembra minimizzare l’intrusione nello spazio dei soggetti ritratti, forse proprio perché la gestualità e la posa del fotografo risultano discrete.
La decisione dei 200 lavori divisi per tematiche, tra scatti, inclusi alcuni a colori, e dei filmati 8 mm e registrazioni vocali offre un tuffo profondo dentro il mondo totalmente celato e introspettivo di Vivian Maier. In particolare, le immagini in bianco e nero in Rolleiflex danno accesso intimo alla sensibilità artistica della fotografa. Due mezze figure femminili, ferme forse davanti a una vetrina: una longilinea in un elegante tailleur scuro, su un piede, mentre l’altro è rialzato, raggiunto dalla mano in un gesto che pare sistemi la calza. L’altra in una pencil skirt di tweed. L’inquadratura taglia il piede più vicino all’obiettivo e mette in sottile evidenza la smagliatura della calza. Un altro scatto, sempre un soggetto ripreso da dietro, sempre una mezza figura dalle ginocchia a poco sotto le spalle. Cammina con le mani incrociate dietro. La composizione mette in rilievo la scucitura/strappo triangolare dei pantaloni. Il contrasto è ancora più netto con una fotografia adiacente dove la posa è esattamente la stessa, ma questa volta di una donna la cui larga cinta di pelle delinea le pieghe della morbida impeccabile gonna e le cui mani inguantate, sempre incrociate dietro, tengono una borsetta di rafia intrecciata e un portamonete di pelle scura. In un’altra serie, lo sguardo si sofferma su soggetti frontali, consapevoli della presenza dell’obiettivo. Le espressioni immortalate sono per lo più sofferti, come quelli di chi è stato messo o costretto a essere ai margini, per così dire, sociali o economici. In modo sussurrato Maier introduce delicatamente lo sguardo dentro la difficoltà di molti, di quelli che fanno fatica a essere visti, soprattutto nel benessere impennante del “sogno americano” del secondo dopoguerra.
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Maier, nel cogliere momenti fuggevoli, piccoli frammenti di vita nelle strade della città, trasforma l’anonimato del soggetto in un protagonista, che, sebbene momentaneo, diventa il volto del collettivo e viene così inserito in un discorso più ampio, di commento storico sociale. Similmente anche la tematica dedicata ai ritratti di bambini suggerisce una certa marginalità sociale. Però, in questo caso, la differenza è fatta da quell’universo dell’immaginazione ancora incantato trasforma oggetti e giochi in storie dove tutto è possibile. Proprio il bianco e il nero, e in tutte le loro combinazioni sfumate, danno enfasi anche estetica agli scatti. Sebbene i soggetti siano presi in momenti ordinari come in una stazione ferroviaria o appena percepibili in un autobus, la composizione e la luce rendono questi scatti poetici, introspettivi come chi li sta guardando in quel momento. C’è l’impressione che l’anonimato, che teoricamente non ha per scelta sua un pubblico, possa dare spazio a un sentimento genuino dell’autore rivelando infatti una sensibilità sia personale, ma anche verso il collettivo che rivela tanto della fotografa stessa. In una sezione, troviamo anche molti autoritratti, ma la cosa che colpisce di più è che quasi tutti hanno in comune il riflesso. L’obiettivo della macchina non è mai davanti a lei, ma sempre puntato verso un vetro, uno specchio o, ancora in modo più elaborato, attraverso lo scatto della sua ombra o in una serie di continui specchi riflessi che mettono in evidenza il fatto che non guardando in camera, lo sguardo è distolto da se stessa.
A differenza di tanti o forse come molti ancora da scoprire, Maier rimane nel silenzio, ma in realtà è proprio questo forse che rende il suo lavoro così forte, poetico, quasi sussurrato, ma con un’enorme eco, che denuncia, urla, ride e la cui potenza ancora oggi riverbera. Non possiamo però non criticare la forzatura fatta sulla divulgazione delle sue opere. Il suo anonimato, i suoi silenzi vengono squarciati da un invasivo interesse mercenario. Ci dobbiamo interrogare su questa dinamica dell’arte e riflettere sul perché dobbiamo per forza romanticizzare, o drammatizzare, forse una scelta che non ci appartiene, inclusa l’arbitraria interpretazione dei dettagli della stampa dei negativi trovati. Dall’altra parte, però, questa sua particolare storia ci fa soffermare sulle tante definizioni del rapporto tra arte e artista. La prima non è circoscritta esclusivamente al tempo e lo spazio predeterminati. Non ha valenza sincrona al secondo. Se è il mezzo artistico che attraversa il tempo, la sostanza artistica lo trascende ed è forse proprio questa l’essenza del rapporto con la sensibilità dello spettatore, che se non altro ha la grande responsabilità di testimoniarne l’immortalità, o magari no.