“Eccellenza, ragioni di famiglia mi impongono di tornare a Sanremo per poter crescere i miei due bambini, fare la buona madre e la brava moglie. Chiedo quindi di accedere all’aspettativa non retribuita, conservando l’incarico all’università di Cagliari”. Domanda respinta dal destinatario della lettera: Benito Mussolini. A scrivere il 15 agosto 1929 era stata Eva Mameli, all’anagrafe Giuliana Luigia Evelina, botanica e naturalista. Non una qualunque. Una donna protagonista di sfide scientifiche – il libro scritto a quattro mani con il marito Mario Calvino si intitola 250 quesiti di giardinaggio risolti – e di battaglie civili condotte con coraggio e fierezza, insignita della medaglia d’argento della Croce Rossa per la dedizione come infermiera durante la Grande Guerra. In un’epoca difficile che relegava il mondo femminile in secondo piano.

Quarta di cinque figli, nata a Sassari nel 1886 e cresciuta in Sardegna, apparteneva a una famiglia borghese tutt’altro che banale. Il padre Giovanni Battista Mameli era un ufficiale dei carabinieri, si dice imparentato con il compositore dell’Inno tricolore; al ramo della madre Maria Maddalena Cubeddu apparteneva il canonico Giovanni Spano, archeologo, etnologo e linguista. Eva, che ama la natura e si perde in lunghe passeggiate nei boschi, si diploma all’istituto tecnico di Cagliari – oggi porta il suo nome – per poi iscriversi alla facoltà di scienze, dove ottiene la laurea in fisica e matematica che l’abilita all’insegnamento scolastico.
La morte del padre però ribalta il tavolo. È costretta a lasciare l’isola assieme alla madre: destinazione Pavia, dove il fratello Efisio – sarà uno dei fondatori del Partito sardo d’azione – occupa la cattedra di chimica nell’ateneo lombardo. Ed è lì che nel 1915 si fregia, prima donna in assoluto, della libera docenza in botanica combinando nozioni di farmaceutica e calcolo infinitesimale alle scienza naturali. Percorso compiuto sulle tracce di Rina Monti, stella polare e modello da imitare, la limnologa che aveva svelato i segreti degli organismi viventi nei laghi alpini. L’incrocio fra le due sa di predestinazione: Rina era stata la prima donna a ottenere la cattedra universitaria nel Regno d’Italia e aveva insegnato a Sassari, la culla di Eva.
Gli studi procedono di pari passo con la vita privata, in maniera del tutto anticonvenzionale: l’incontro del destino è l’agronomo, floricultore e viticultore sanremese Mario Calvino, nove anni più di lei. Si tratta di un personaggio dai mille risvolti che va raccontato. Repubblicano e anticlericale, affiliato alle logge massoniche Mazzini e Garibaldi, era stato nel 1908 al centro di un intrigo internazionale: il fallito l’attentato allo zar Nicola II. Arrestato e condannato alla pena di morte fu un italiano di nome Mario Calvino, a quanto risultava dalle carte. Quell’uomo era in realtà il matematico e astronomo russo Lebedincev, un anarchico che viaggiava grazie a un passaporto autentico non suo. Convocato dalla polizia italiana, Calvino mise a verbale che il documento gli era stato rubato in treno e aveva dimenticato di denunciare il furto.
Tesi inattendibile, il terreno ormai scottava. Così s’imbarcò avventurosamente verso gli Stati Uniti, preludio all’arrivo in Messico per aggregarsi ai rivoluzionari di Pancho Villa. Al di là della politica, restava però uno scienziato di grande spessore tanto da essere messo dal nuovo governo a capo dei servizi agrari dello Yucatan nel 1916. Non durò oltre. L’anno dopo si spostò a Cuba per dirigere la Stazione sperimentale di Agricoltura a Santiago de la Vegas, venti chilometri dall’Avana: è lì che finalmente, sbarcata dal transatlantico Aquitania, lo raggiunge Eva, conosciuta a Pavia prima della fuga in Centroamerica e sposata per procura – un’altra versione dei fatti dice che Mario tornò in Italia per sposarla e portarla con sé oltreoceano. Sarà quella una tappa fondamentale nell’orgoglioso processo di emancipazione di una donna forgiata nel rigore e nell’impegno.
È un sodalizio perfetto tra anime gemelle. La coppia di liberi pensatori elabora un progetto di vita laico basato sulla fede nel progresso. In quel paradiso naturalistico, lavorando in simbiosi sulle piante esotiche – Eva è esperta di genetica vegetale – scoprono orizzonti insospettabili di ricerca: introducono criteri inediti nella coltivazione della canna da zucchero e si dedicano all’addestramento dei campesinos, creando in più una scuola sociale per i figli dei contadini più poveri. Organizzano le feste popolari della mamma e dell’albero. Fanno divulgazione con un approccio pratico quotidiano, insegnando ai coloni come trattare i semi e combattere le malattie delle piante.
L’esperienza formativa dura cinque anni, durante i quali nasce il primo figlio: lo chiamano Italo, perché in terra straniera non dimenticasse la patria. Diventerà un grande narratore famoso in tutto il mondo, raccontando in un romanzo – Il barone rampante – la storia di un ragazzino che decide di salire su un albero per non scendere mai più. Della madre avrebbe scritto in seguito: “Era severa, austera, rigida nelle piccole e nelle grandi cose. Non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di buganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari. Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva”.
Nel 1925 tornano in Italia, perché Eva accetta la direzione della Stazione sperimentale di floricoltura appena creata a Sanremo. L’ambiente è stimolante e cosmopolita: ricchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e agiata che adora svernare in riviera. Ma i traslochi non sono finiti. La fama di scienziata e donna infaticabile, orgogliosamente socialista e pacifista, è un magnete attrattivo che supera gli spigoli del suo carattere. Si palesa la possibilità di tornare dove tutto era cominciato, nella Sardegna delle radici, con un ruolo prestigioso e non se lo lascia sfuggire: mentre Mario la surroga nell’incarico in Liguria, lei va a presiedere l’Orto botanico dell’università di Cagliari nel 1926. Non è quella l’ultima tappa, perché il no del Duce chiude la porta alla prosecuzione della carriera accademica.
Sfiancata dal pendolarismo tra l’isola e la Liguria, Eva si dimette per rispondere al richiamo della famiglia: fa ancora una volta i bagagli, risale sul piroscafo e approda a Sanremo per lavorare da assistente al fianco del marito sulla riviera dei fiori. Inseparabili e complici in tutto, acclimatano nel parco di Villa Meridiana i semi di avocado, mango, pompelmo e kiwi portati dai Caraibi. Piantano le palme. L’accordo fra i due del resto è sempre stato totale e totalizzante, amore per la scienza e amore coniugale camminano sottobraccio. Tirano su due ragazzi speciali: il secondogenito Floriano – quale altro nome potevano scegliere? – sarà geologo, ingegnere e giornalista.

Ma arriva l’ora più buia. I rapporti dei Calvino con il fascismo si fanno ancor più complicati: costretto a iscriversi al partito, nel ’36 il capofamiglia giura fedeltà al re e al regime pur di tenere un corso di agricoltura tropicale all’università di Torino. Scoppia la guerra. Mentre i due figli salgono in montagna per combattere nella Resistenza, Eva e Mario danno asilo ai partigiani e nascondono alcuni ebrei. Li scoprono. Lui viene sbattuto in cella per 40 giorni, lei è obbligata ad assistere a due fucilazioni simulate del marito da parte dei repubblichini di Salò. Ogni orrore ha però una fine prima o poi. Partiti per altri lidi Italo e Floriano, i genitori si ritrovano soli con i loro studi appassionati nel prato sanremese finché una bronchite si porta via Mario. E’ il 1951. Per otto anni la direzione della Stazione passa nelle mani di Eva, che la difende con la solita tenacia dall’aggressione edilizia del boom economico. Poi si ritira a vita privata, in piena riservatezza fra i libri e i gerani. Senza dimenticare i compiti di ambientalista ante litteram: scrive un volumetto che insegna ai bambini come costruire casette per gli uccellini.
La maga buona che coltiva gli iris – così la definiva Italo – se ne va a 92 anni nel ’78. “Sembravo timida ma non lo ero per niente. Dentro di me sentivo una gran voglia di imparare. Non avevo ancora idea di cosa avrei fatto, però sapevo che desideravo scoprire per essere utile. A chi o a che cosa lo ignoravo, ma l’idea di diventare qualcuno mi accompagnò sempre in quegli anni”, recita il testamento ideale di una donna che ha saputo essere scienziata e madre, assolvendo alla doppia missione senza tentennamenti. Il suo lascito è il sogno di una società che respiri con la natura, oggi ancora lontana da divenire tale. Consola almeno sapere che non ha visto Villa Meridiana trasformata in residence, e il giardino incantato sfregiato da un parcheggio.