“Ma poi per fortuna arriva il sole, che è il più grande amore della mia vita”. Firmato: Giulia e un cognome, vergati su una placca di lava smaltata. A che punto è la notte, dietro le sbarre? Le ore scorrono eppure il buio non passa mai. E non passa la pena per la pena da scontare: ogni giorno si accorcia però il tempo sembra dilatarsi senza limiti. Specie quando il detenuto è una donna, peggio ancora se è madre o lo diventerà presto, perché neanche alle ragazze incinte è risparmiata la prigione.
Nel panorama artistico della grande bellezza, dell’innovazione, delle intuizioni che chiamano a un mondo rispettoso di esseri viventi e ambiente, la mostra più coinvolgente della Biennale di Venezia è un pugno nello stomaco del tutto inatteso. L’ha voluta e inaugurata Francesco — prima volta in assoluto per un Papa — che a fine aprile è venuto qui, dentro le mura dell’antica casa circondariale alla Giudecca, numeri civici dal 711 al 714, a benedire i mille metri quadrati trasformati nel Padiglione del Vaticano.
Nata nel dodicesimo secolo come monastero, la struttura è diventata nel 1600 un ospizio della Serenissima per anziane cortigiane da convertire e quindi, a metà Ottocento, un carcere austriaco. O meglio: una carcere, come si definiva all’epoca di Beccaria, quasi che nel destino della parola fosse già scolpito l’indirizzo femminile. Questo è rimasto il suo connotato esclusivo tuttora, allargato alle giovani agenti di sorveglianza in divisa, dipendenti del ministero di giustizia che hanno sostituito le suore di carità.
Ma come può esistere l’arte in un posto del genere? Con i miei occhi è il titolo dell’allestimento curato da Bruno Racine e Chiara Parisi. Rappresenta un appello e un invito: venite a vedere di persona, usate il nostro sguardo per capire come si sta davvero al gabbio. Un luogo non-luogo in cui l’anima è prigioniera assieme al corpo.
Otto performer si sono confrontati con la realtà correttiva che abita le camerate, le docce, il refettorio, la cucina, il laboratorio di cucito, l’orto, la sala del parlatorio, l’ufficio matricola, il magazzino, una cappella barocca sconsacrata e la chiesetta interna. Hanno camminato lungo i centocinquanta metri della stretta cavana, un nome meno opprimente rispetto a quello vero: il corridoio dei morti, perché lo percorre verso l’uscita chi va per una destinazione senza uscita.
Claire Fontaine, duo femminista e concettuale, ha lasciato un segno a caratteri cubitali nella grande corte gelida d’inverno e afosa d’estate, che raccoglie le recluse durante l’ora d’aria — che poi sono due o tre a seconda della stagione. La scritta recita: Siamo con voi nella notte. E proprio di notte s’illumina a led, risplende nella tenebra, diventa visibile dai finestroni sbarrati dove si affacciano le inquiline insonni. A sottolineare che non sono sole, che nessuna notte è infinita.
Aiuta, l’arte può aiutare. Per esempio può trasformare una vecchia foto di famiglia nel ritratto di una bambina, ora adulta e reclusa, abbracciata alla madre (Claire Tabouret). Può esprimere visivamente poesie e narrazioni di chi ha perso la voce (Simone Fattal). Può diventare la coreografia che coinvolge le detenute in una danza di resistenza e libertà (Bintou Dembélé). Può manifestarsi come messaggi per una rivoluzione pop gioiosa e pacifista (Corita Kent). Può scendere dal cielo in forma di stoffe colorate, sculture annodate a fili sospesi (Sonia Gomes). E può diventare un toccante cortometraggio neorealista, virato tra il colore del fuori e lo sgranato bianco e nero dentro il recinto: l’ha girato Marco Perego accostando alla moglie Zoe Saldana un gruppo di detenute-attrici, per una volta visibili protagoniste.
A turno due di loro sono le guide che accompagnano i visitatori. Difficile fare domande. Quante siete? “Oggi sono arrivate nove ragazze, per lo più straniere. Siamo al completo: centodieci recluse”, è la risposta. Perché siete finite qui? “Io pago una colpa non mia — dice la prima — mi sono caricata quella di un uomo. Al principio per un mese sono rimasta muta: ero stordita, annichilita. Ho poche amiche di cui fidarmi, qui come nel mondo c’è tanto opportunismo”. Quanto resta da scontare? “Poco. Un anno e mezzo ancora e poi andrò via”. A casa c’è qualcuno che aspetta? “Troverò mia madre, ha 82 anni”, mormora abbassando gli occhi. Sorride.
Peccato che le detenute non possano vedere l’unica opera montata all’esterno, sulla facciata del carcere. È un grande affresco in grigio di Maurizio Cattelan, che ha dipinto un paio di piedi giganteschi: le piante sono sporche, livide, gonfie, piagate. Sostengono il peso dell’esistenza più dura. Di fronte al quale l’arte è una terapia che lenisce il dolore, offre conforto, addolcisce le ferite, indica una strada. Rende queste donne vive, importanti, degne di attenzione. Di nuovo persone. E puoi sentire l’odore del mare anche da qui, a dimostrazione che per ogni pena c’è un fine pena.