Rubies dal balletto in tre parti Jewels, una delle coreografie più celebri di Balanchine, apre la serata Classic New York City Ballet. Balanchine lo coreografò nel 1967 per celebrare il trasferimento nel suo grande teatro, il New York State Theatre, all’interno del Lincoln Center, dopo anni trascorsi negli spazi limitati del Lincoln Center. Si ispirò ai tre grandi paesi che lo avevano formato come ballerino, coreografo e rivoluzionario della danza: la Russia dove aveva studiato, la Francia dove aveva lavorato con i Ballets Russes di Diaghilev e l’America dove aveva creato la sua compagnia e dato inizio alla tradizione del balletto americano. A ognuno dedicò un gioiello, idea scaturita da una visita nel negozio di Van Cleef & Arpels: i diamanti per la Russia, gli smeraldi per la Francia e i rubini per l’America. Per Rubies, nulla di meglio della musica di un russo, ma emigrato come lui: Igor Stravinsky, che all’America si era ispirato per il suo Capriccio.


Capriccio è pieno di trovate, con frequenti richiami al jazz e alle marcette americane, e Balanchine vi ha costruito sopra una coreografia velocissima, con il corpo di ballo che segue un tempo, mentre i solisti ne seguono un altro, con l’ensemble che crea geometrie complicate che si compongono e scompongono con il muoversi di un braccio, una gamba, una testa. Balanchine giocava con i corpi delle ballerine americane, più lunghi, più sottili, per sfidarne i limiti, allungando i développé all’infinito, chiudendo le attitude, portando avanti i fianchi rispetto alle gambe. In Rubies è l’uomo a prendere la gamba della donna e allungarla, girarla dirigerla dove vuole. Creato per Patricia McBride e Edward Vilella, Rubies è stato interpretato con grande dinamismo da Emma Von Enck, Joseph Gordon e Emily Kikta. Una coreografia che dopo quasi 60 anni è ancora assolutamente contemporanea.
Veramente contemporanea è Dig the Say, l’ultima composizione dell’attuale coreografo stabile del NYCB, Justin Peck. Creata su musica di Vijay Iyer, ispirata da James Brown, è un pas de deux con tutti i requisiti della tradizione in chiave assolutamente moderna, interpretato da due ballerini di eccezione: Tiler Peck (nessuna relazione con il coreografo) e Roman Mejia. La coreografia inizia con un gioco di palla dall’uno all’altro, un escamotage che dopo poco stanca, ma non appena la danza entra nel vivo, e la palla scompare, emerge la capacità di questo giovane coreografo – impegnato anche a Broadway attualmente in Illinoise. Ed emerge il talento dei due ballerini.
Di Tiler Peck si sa che è precisa, veloce, che domina la scena, Roman Mejia è una rivelazione. Promosso primo ballerino lo scorso anno ha pirouette e grand jeté che ricordano Baryshnikov, una gioia evidente nel danzare, specialmente quando termina le pirouette rallentando, quando chiude un salto tenendolo. La facilità apparente con cui esegue tutto è sorprendente. Ha solo 23 anni ed un grande futuro davanti. Il suo destino d’altronde era segnato, Mejia è cresciuto in mezzo ai tutù: il padre era un solista del NYCB con Balanchine, la madre prima ballerina del Chicago City Ballet e Fort Worth Dallas Ballet.

Dopo l’inizio a sorpresa il pas de deux ha preso un andamento più tradizionale per concludersi nel più classico dei modi con un trionfo di fouetté e grand pirouette, sebbene con un ritmo diverso.
La serata è proseguita con In Creases su musica Four Movements for Two Pianos di Philip Glass: prima coreografia di Justin Peck per il NYCB, mostra tutti i segni del primo esperimento specialmente a confronto con le trovate coreografiche di Dig the Say. Infine Underneath, There is Light di Amy Hall Garner su 5 pezzi musicali diversi, ultimo I pini di Roma di Ottorino Respighi: primo lavoro della giovane per il NYCB, deve trovare ancora una sua accattivante originalità.