Fu un derby surreale. La troupe di Salò e le 120 giornate di Sodoma opposta a quella di Novecento, Pier Paolo Pasolini contro Bernardo Bertolucci che in quei giorni giravano due film memorabili a pochi chilometri di distanza. Era il 16 marzo 1975, una domenica ruvida e piena di umidità.
Pasolini e i suoi partirono in pullman dalla villa di Pontemerlano di Roncoferraro, nella bruma mantovana dove stavano ultimando le riprese, per raggiungere il parco della Cittadella nella Parma dei Bertolucci. Bernardo festeggiava il trentaquattresimo compleanno, ma Pier Paolo non gli avrebbe fatto gli auguri se non fosse stato per Laura Betti, grande amica di entrambi.
Era stata lei ad avere l’idea: organizzare una partita di calcio per rappacificare quei due, che a Roma avevano abitato nello stesso palazzo, stimandosi e condividendo l’amore per il cinema e la letteratura. Pasolini, classe 1922, e Bertolucci, vent’anni di meno: rispettivamente regista e aiuto regista di Accattone, primo film per tutti e due nel 1961. Maestro e discepolo. Due caratteri forti, due uomini ricchissimi di personalità. I loro rapporti si erano raffreddati dopo i giudizi trancianti di Pasolini su Ultimo tango a Parigi uscito tre anni prima. Non aveva neppure firmato l’appello contro il ritiro dalle sale del film, accusato di oscenità e offesa al comune senso del pudore ― stessa sorte sarebbe toccata a Salò, sequestrato dall’autorità giudiziaria.
PPP impazziva per il pallone, gli correva dietro per ore anche in giacca e cravatta sull’erba delle periferie. Nell’estate del ’41 era tesserato con i bianconeri della Gil Casarsa, all’università divenne il capitano della squadra di Lettere e si teneva stretta la maglia numero 7: ala destra rapidissima, lo chiamavano Stuka come l’aereo incursore tedesco. Definiva il calcio “l’unica rappresentazione sacra del nostro tempo”, giocando trovava l’equilibrio perfetto tra la sua testa da intellettuale e un’anima popolare. Così ovunque fosse impegnato, in Italia o all’estero, mollava il set per scendere in campo con la Nazionale Attori e Cantanti.
Enzo Biagi in una intervista televisiva gli chiese: “Senza cinema, senza scrivere, cosa le sarebbe piaciuto diventare?”. La risposta fu: “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.
Ma quella domenica non ci fu un confronto diretto con l’ex allievo diventato rivale. Bertolucci preferì restare a bordo campo, su una panchina, nel ruolo di manager addetto alla tattica. Il pubblico scarso e infreddolito — trenta persone in tutto, compreso un pensionato con il cane — oscillava fra tifo e sfottò per le due squadre: quelli di Novecento in completo viola e scritta trasversale gialla disegnato dalla costumista Gitt Magrini; l’undici di Salò con casacca a strisce rossoblù, i colori del Bologna di Pasolini. A filmare l’evento la cinepresa super 8 di Clare Peploe, sceneggiatrice che tre anni più tardi avrebbe sposato Bernardo.
Si decise che gli arbitri fossero due: uno per tempo, ciascuno in rappresentanza della propria compagine. Ma la lealtà sportiva finì lì. Bertolucci, per contrastare la prevedibile superiorità degli avversari, aveva reclutato un paio di ragazzi delle giovanili del Parma. Chi erano? Del primo non resta traccia nell’album delle figurine, l’altro invece è l’allenatore più famoso del mondo: si chiama Carlo Ancelotti, emiliano di Reggiolo, futuro centrocampista di Roma, Milan e della Nazionale, oggi capo carismatico del Real Madrid. Sembrava una inverosimile leggenda metropolitana, ma è stato lui stesso ad ammettere dinanzi a una vecchia istantanea in mano a un giornalista della Gazzetta dello Sport: “Sì, quel ragazzino sono io”. E poi: “Dove l’avete trovata? Non l’avevo mai vista. Ricordo bene, dovevo ancora compiere sedici anni. Un dirigente venne a prendermi la mattina presto, quasi clandestinamente, e mi portò al campo. Mi fecero passare per attrezzista, a un certo punto feci gol. Pasolini si era accorto che non tutto era regolare, però aveva talmente tanta voglia di giocare che ci passò sopra. Portava la fascia di capitano al braccio sinistro ma si fece male: un pestone lo costrinse a uscire”. Non prima però di aver apostrofato i compagni nero di rabbia: “Siete dei narcisetti, non mi passate mai la palla”.
Il resto lo racconta un docufilm di Alessandro Scillitani e Alessandro Di Nuzzo. La squadra di Bertolucci, sotto 2-0, approfittò dell’infortunio di Pasolini messo fuori causa da un macchinista, che lo azzoppò con un paio di entrate assassine. Novecento pareggiò per poi dilagare: risultato finale 5-2 con tripletta di Enrico Catuzzi, altro infiltrato sottobanco, che sarebbe diventato allenatore in serie A e teorico della zona.
Seguì la premiazione a centrocampo: Laura Betti consegnò ai trionfatori la Coppa Valle Padana messa in palio per la disfida, quindi torta e foto di rito. Al di là dei sorrisi, la tavolata conviviale in osteria alla Sacca di Colorno non dissipò la tensione fra i due registi: Pasolini, rabbuiato per com’erano andate le cose, salutò tutti lasciando anzitempo la compagnia.
Niente lieto fine? Il destino concesse a entrambi i tempi supplementari. Il 14 settembre Pier Paolo giocò, vincendo, la sua ultima partita allo stadio di San Benedetto del Tronto, stavolta con la maglia numero 11 ― la stessa che Ninetto Davoli gli sistemò accanto nella bara, come estremo omaggio. Nel frattempo la riconciliazione con Bertolucci era finalmente avvenuta, piena e generosa: “So che stai finendo Novecento, lì ci sono i tuoi contadini, sono sicuro che mi piacerà”. E fu proprio Bernardo a portare a spalla il feretro dell’amico ritrovato, ucciso all’idroscalo di Ostia il 2 novembre di quello stesso, bellissimo e terribile 1975.