In Italia solo una quota marginale dei detenuti è coinvolta in attività lavorative mentre il resto trascorre circa venti ore al giorno in cella senza occupazione. Tuttavia, c’è la possibilità di recuperare i detenuti attraverso il lavoro, offrendo loro prospettive per il futuro al di fuori della prigione.

Il film di Antonio Tibaldi, Gorgona, presentato il 21 aprile alla 13ª edizione del Queens World Film Festival (QWFF, la rassegna internazionale di cinema indipendente organizzato dai residenti del Queens, Donald Preston Cato e Katha Cato), parla di speranza e di esperienze concrete, quelle del carcere di Gorgona, isola al largo di Livorno, l’ultima colonia penale agricola d’Europa. Quello che inizia come un viaggio della giovinezza si trasforma così in un’esplorazione della vita all’interno di un istituto penitenziario agricolo, dove detenuti e forza dell’ordine cercano di recuperare il senso che dovrebbe avere il carcere, un momento di crescita e non solo di punizione, un’opportunità per recuperare risorse umane e reinserirle nella società civile.
Come hai gestito l’equilibrio tra la narrazione dei fatti quotidiani e la profondità emotiva dei detenuti e degli animali coinvolti?
Le riprese sono durate tre anni e mezzo. Mi sono dedicato a osservare con pazienza e costanza, attraverso l’obiettivo della mia telecamera, la routine quotidiana delle persone che abitano sull’isola con la giusta discrezione e il necessario equilibrio. Ho notato che ai detenuti vengono affidati dei compiti che vanno dalla cura degli animali alla manutenzione delle abitazioni e delle strade. Il mio obiettivo era portare il pubblico direttamente sull’isola, creando un racconto collettivo su un luogo in cui il lavoro con la terra e gli animali diventa un’esperienza di “dignità dietro le sbarre”.

Ci racconti di più sul ruolo della natura e degli animali nell’opera di rieducazione dei detenuti?
Gorgona, forse la più suggestiva delle isole dell’arcipelago toscano, si presenta come un luogo quasi intatto. Originariamente un’isola prigione, ha mantenuto questa vocazione per quasi 160 anni. Senza la presenza di negozi, ristoranti, cellulari, macchine o motorini, sembra quasi che il tempo si sia fermato. Il lavoro dei detenuti richiama un’epoca precedente, simile a quello nei campi prima dell’automazione. Il rapporto tra uomo, natura e animali rende l’isola unica, definibile quasi come un esperimento utopistico. Al mattino, le celle si aprono e i detenuti si recano al lavoro senza una sorveglianza eccessiva, in un’atmosfera di relativa libertà. Gli animali allevati nel penitenziario possiedono un importante ruolo rieducativo all‟interno del percorso di crescita dei detenuti. A differenza dei solito film a tema carcerario, Gorgona cerca di abbattere le paure e diffidenze attraverso le storie di chi sta imparando un mestiere utile per costruire un proprio futuro alla fine dell‟esperienza detentiva, e dunque strumento privilegiato per reinserirsi nella società.
Un istituto che occupa l’intera isola, abitata esclusivamente da carcerati e da personale carcerario, con la sola eccezione di Luisa Citti, una donna di 94 anni che non ha alcuna intenzione di lasciare l’isola.
Lei è felice sull’isola, si sente privilegiata, con tutto ciò di cui ha bisogno. Ho trascorso molto tempo con Luisa in attesa dei risultati ai ricorsi che presentavo quando mi veniva impedito di girare in alcuni luoghi. Ho ripreso scene in cui i detenuti le portano la spesa, le sistemano il giardino o svolgono qualche lavoretto dentro casa. Avevo accumulato tanto materiale ma alla fine ho deciso di mantenere Luisa come una presenza silenziosa nel film, quasi come una figura onirica. Questo ha contribuito alla costruzione drammaturgica del documentario.

Un carcere modello, una comunità che funziona perché ognuno fa la propria parte. L’esperienza di Gorgona potrebbe essere di esempio per le carceri americane?
Gorgona è un carcere unico al mondo, tuttavia, sulla base delle mie ricerche e sull’esperienza diretta, quello americano è un sistema carcerario repressivo e punitivo, mentre il sistema italiano ed europeo è orientato principalmente alla rieducazione e al reinserimento nella società.
La ricorrenza della recidiva è un problema sia in Europa che in America, ma assume proporzioni gigantesche negli Stati Uniti. È un circolo vizioso per cui si esce dal carcere più o meno come si è entrati: manca la volontà di dare ai detenuti una seconda possibilità di vita, offrendo loro gli strumenti per cambiare e reinserirsi nella società una volta scontata la pena. La conseguenza è il sovraffollamento carcerario e poi c’è la questione dei reati minori, spesso accompagnati da evidenti pregiudizi razziali.
Mi auguro che il film, ancora presente nelle sale italiane, possa far conoscere al pubblico americano un modello di non violenza e sensibilizzarli sulla realtà delle carceri, un argomento spesso trascurato e considerato lontano ed estraneo.
