Sta arrivando la rivoluzione e non ho niente da mettermi. Rosa Angela Caterina Genoni invece sapeva benissimo che panni vestire, fin da ragazzina, e la rivoluzione l’ha fatta in ogni momento della sua esistenza. In quale altro modo descrivere questa donna nata nel 1867 in un paesino della Valtellina, prima di diciotto tra fratelli e sorelle, una famiglia che tirava avanti alla meno peggio? Il padre Luigi calzolaio, la madre Margherita sarta. Aveva dieci anni quando arrivò a Milano, spedita dai suoi a imparare il mestiere dalla zia anche lei sarta: nessuno avrebbe immaginato che la piscinìna – così la chiamavano, la piccolina – sarebbe diventata la signora della moda italiana e tanto altro ancora: stilista, docente, saggista, giornalista, attivista politica, femminista, pacifista. Eppure la tigna, la speranza e il sogno di realizzare qualcosa di grande se li portava già dentro. Sgobbava da apprendista con ago e filo, poi correva alla scuola serale. Prese la licenza elementare e si iscrisse a un corso di francese: aveva capito che c’era molto da imparare se voleva crescere nella professione. E come persona.
La grande città le aprì la mente. Rosa era andata ingrossare le fila della manodopera femminile a basso costo: messa davanti alle piaghe del lavoro usurante e dello sfruttamento, aderì al socialismo delle azioni, alle lotte sindacali e alle rivendicazioni salariali. Entrò in contatto con il Partito Operaio appena fondato e i dirigenti del circolo le proposero di rappresentare il movimento a un congresso internazionale a Parigi. “Parli francese, giusto? Vai tu”. Parigi era la capitale dell’eleganza, lei era una provinciale diciassettenne: colse al volo l’opportunità e fu la svolta. Decise di restare lì, oltre il tempo del convegno, per studiare e perfezionarsi nelle tecniche di sartoria. Intelligente e ambiziosa qual era, riuscì talmente bene che tornata a Milano assunse l’incarico, giovanissima, di maestra nell’atelier Dall’Oro. Cambiando l’organizzazione interna delle maestranze: dalla teoria alla pratica, fu quella la prima delle sue rivoluzioni.

Ma il treno della manifattura Lombardia-Francia e ritorno la vedeva sempre più spesso tra i passeggeri. Così grazie al suo talento nel 1886 la troviamo in un atelier di Rue de la Paix a Nizza, quindi il rientro a Milano assunta dalla sartoria Bellotti. Arrivano finalmente buone paghe: i denari guadagnati le consentono di chiamare i genitori sotto la Madunina e di offrire ai fratelli emigranti il biglietto per l’Australia. Nel 1895 passa alla prestigiosa H. Haardt e Figli – filiali a Sanremo, Saint Moritz e Lucerna – nella sede di corso Vittorio Emanuele a Milano, di fronte alla principale antagonista: la maison Ventura, fornitrice della Real Casa e della migliore aristocrazia nordista. Non è però la concorrenza nazionale il vero problema. In Italia venivano confezionati solo modelli francesi, cloni dei vestiti acquistati a caro prezzo da Paquin, Poiret, Cherériut, Douchet, le sorelle Callot, ovvero i più noti negozi parigini. Genoni cambia le carte in tavola osando. Nominata direttrice di duecento dipendenti, impone alle altolocate clienti i suoi “modelli speciali” anziché le copie degli abiti francesi.
È ormai lanciatissima. Nel 1906 trionfa all’Esposizione internazionale di Milano, proponendo capi raffinati ispirati alla tradizione pittorica rinascimentale: il vestito ispirato alla Primavera del Botticelli, realizzato in raso di seta pallido e sormontato dal tulle color avorio, vince il Gran premio dell’arte decorativa. Veste le dive Lyda Borelli e Dina Galli, la principessa Letizia di Savoia e la marchesa Luisa Casati Stampa. Ed è la pioniera del made in Italy: per le creazioni usa esclusivamente tessuti nazionali, l’orgoglio autarchico è la sua seconda rivoluzione. Ma anche nel periodo in cui matura l’affermazione professionale è comunque impegnata politicamente, in battaglia per il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici.
Nel 1893 entra nella Lega promotrice degli interessi femminili, abbracciando le posizioni di Anna Kuliscioff, la rivoluzionaria russa fondatrice del Partito socialista italiano: le due, grandi amiche, sosterranno sulla stampa e in piazza l’emancipazione delle operaie e la tutela dei minori. È il tempo dei grandi fermenti interiori per Rosa. Nella cerchia anarchica di Pietro Gori conosce Alfredo Podreider, avvocato penalista al quale sarà legata per sempre: nel 1903 nasce la figlia Fanny, vent’anni più tardi si celebra il matrimonio. L’unione della coppia è totale. Nel ’28 il marito sovvenziona nel carcere di San Vittore un laboratorio di sartoria per le detenute, da lei organizzato. Poi un asilo nido e un gabinetto ginecologico, rimasti in funzione fino ai bombardamenti del ’43 su Milano.

Ma una parte cruciale dell’avventura si snoda nel clima di crescente militarizzazione che precede la Grande Guerra. Rosa è schierata per il pacifismo in opposizione alle tesi interventiste, invoca la neutralità dello Stato italiano. L’impegno è multiforme. Nel 1914 fonda il Comitato Pro Umanità per la raccolta di aiuti ai prigionieri di guerra. Il 28 aprile 1915 è l’unica rappresentante tricolore nel Congresso delle Donne all’Aja, promosso dalla nascente Women’s International League for Peace and Freedom, dove il tema del suffragio si sposa alla causa della pace globale. Siede al tavolo delle relatrici con i grandi nomi dell’attivismo internazionale come l’olandese Aletta Jacobs e le americane Jane Addams e Emily Greene Balch, future Nobel per la pace. Finché gli eventi precipitano: l’entrata in guerra degli Stati Uniti vanifica la sua terza rivoluzione.

Sottoposta a controlli di polizia e diffidata per l’attività di propaganda, Rosa non cessa tuttavia di battersi. A modo suo. E cioè predicando una equa organizzazione delle lavoratrici tessili, i corsi di formazione, l’ammodernamento dell’industria e la valorizzazione dell’artigianato. “Un traguardo di concreta autonomia nel campo della moda può sgomberare il cammino delle donne verso rivendicazioni più impegnative sul piano civile”, è il suo manifesto.
Anche l’abito è politica. Nel ’25 pubblica il primo volume de La storia della Moda attraverso i secoli, una sorta di enciclopedia didattica e divulgativa. Secondo e terzo tomo non vedranno mai la luce perché l’ascesa di Mussolini tronca ogni suo progetto. Fiera oppositrice del regime, perseguitata e messa al bando, nel 1931 lascia la cattedra alla scuola professionale femminile della Società Umanitaria di Milano, rifiutando di giurare fedeltà al fascismo. Stessa sorte accompagna il marito, così la famiglia si rintana a Sanremo: Alfredo muore nel ’36, lei si spegne nel ’54 a Varese dove si era trasferita con la figlia Fanny. Mai in silenzio. Nel 1948 – paladina di 81 anni – aveva scritto una lettera appassionata al conte Bernadotte, mediatore dell’Onu per la questione palestinese, auspicando la pace tra ebrei e arabi. Indomita e audace fino alla fine, avrebbe meritato un epitaffio scritto da Shakespeare: forse che quella che chiamiamo Rosa cesserebbe di avere il suo profumo se la chiamassimo con un altro nome?