San Valentino, chi era costui? Probabilmente un prete, un vescovo, un martire nato attorno al 176 dopo Cristo e venerato dalla Chiesa cattolica, ortodossa, anglicana e luterana. Di lui si sa poco, nulla o moltissimo a seconda dei punti di vista. Di certo viene festeggiato oggi nel giorno della morte, il 14 febbraio, data che però associa sul calendario due santi con lo stesso nome: un vescovo di Terni e un sacerdote romano. La convivenza fa litigare storici e archeologi attorno a tre ipotesi. La prima: Valentino era un presbitero capitolino che subì il martirio durante la persecuzione dei cristiani. La seconda: il Valentino martire non è mai esistito, quel nome apparteneva al finanziatore della basilica sorta sotto il pontificato di Giulio I. La terza: il Valentino di Terni e quello di Roma erano un’unica persona, trucidata e poi sepolta sulla via Flaminia.
Insomma, così è se vi pare. Però una cosa almeno è sicura: il culto del santo è diffuso ovunque, come peraltro le sue reliquie sparse in Italia da nord a sud. Il motivo è semplice. Valentino è considerato in tutto il mondo il patrono degli innamorati che in questo giorno fatidico si scambiano baci, fiori, cioccolatini e biglietti a forma di cuore – valentines, in inglese. Che cosa ha fatto per meritarsi il titolo, l’onore e l’onere di protettore delle coppie? Anche qui nessuna certezza. La leggenda dice che un giorno il vescovo, passeggiando, vide due fidanzati che stavano litigando: porse loro una rosa da tenere stretta nelle mani unite, propiziandone la riconciliazione. Raccontino un po’ fragile per costruirci sopra un mito, più plausibile un’altra versione: il santo ispirò l’amore fra due ragazzi contornandoli di piccioni che si scambiavano effusioni in volo – da qui l’espressione piccioncini.
E poi c’è una narrazione d’indubbio fascino. Malgrado l’avversione delle famiglie, Valentino unì in matrimonio la cristiana Serapia, gravemente malata, e il centurione pagano Sabino, da lui battezzato, finché l’amore avvolse entrambi nel sonno profondo di una morte salvifica. L’episodio ha tinte scespiriane, evoca l’Amleto e la scena della pazzia di Ofelia che canta vaneggiando: Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io che son fanciulla busserò alla tua finestra, voglio essere la tua Valentina.
Va detto però che la festa intitolata al santo è tale solo da un certo momento in poi. La sua istituzione nel 496 si deve a Papa Gelasio, che l’arretrò di un giorno rispetto agli antichi Lupercalia descritti da Plutarco, Livio e Ovidio. Erano quelli una specie di carnevale a sfondo erotico-orgiastico diretto dai sacerdoti del dio Fauno, detti appunto Luperci, che correvano nudi per le strade fustigando le donne – felici e consenzienti – desiderose d’essere fecondate.
Intrigante quanto imbarazzante, il rito venne abolito dall’austero pontefice. Meglio affidare i fidanzati alle cure di un sant’uomo di nobile famiglia e dal carattere mite, fatto vescovo a 21 anni, che coltivava rose nel suo giardino. Capace di guarigioni inspiegabili e miracolose conversioni a Roma, tanto da attirare le ire dell’imperatore Aureliano che ne ordinò l’eliminazione: Valentino venne arrestato e decapitato al secondo miglio della via Flaminia. Nella vicinanze del Ponte Milvio. E questa è una straordinaria coincidenza che attraversa i secoli.
Perché quel ponte, che i romani chiamano affettuosamente Ponte Mollo, è assurto a moderna notorietà fra gli innamorati grazie a un’invenzione letteraria di Francesco Moccia. Tradotta in pratica dallo scrittore stesso. “Era l’8 febbraio del 2006 – spiega – mezzanotte appena passata. In giro non c’era un’anima. Sono arrivato lì e ho attaccato un lucchetto al terzo lampione: avevo paura che qualche lettore andasse sul ponte a verificare che ci fosse davvero. Una settimana dopo sono ripassato e ne ho contati trecento. È fatta, ho pensato”.
Il suo libro è un romanzo intitolato Ho voglia di te, sequel di Tre metri sopra il cielo: bestseller generazionale che ha fatto epoca, diventando un film di grande successo interpretato da Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti. Nella scena cruciale due ragazzi, Step e Gin, giurano amore eterno l’uno per l’altra agganciando un lucchetto alle catene di Ponte Milvio, e poi buttano la chiave nel Tevere. Idea romantica che ha fatto scuola, dilagata fra i giovani (e i meno giovani) di mezzo mondo. Il Ponte des Arts a Parigi, Berlino, Amburgo, Tampere in Finlandia, il ponte di Brooklyn, Las Vegas, Melbourne, Vancouver, il Ponte Vecchio di Firenze, Rialto a Venezia, Londra, Edimburgo, Dublino, la Spagna, Algeri, Taiwan, il Giappone, Montevideo, Recife in Brasile: la moda è esplosa con effetto virale travolgente. L’esempio più buffo arriva da una cittadina del Nevada che si chiama Lovelock, il destino nel nome.
A ciascun ponte i suoi lucchetti, sempre di più. Tanti, tantissimi. Troppi. Così da diventare in certi casi addirittura insostenibili. Il sovraccarico delle strutture ha imposto la rimozione forzata a colpi di tronchese, spaccando il gancio e l’opinione pubblica: era ora che li togliessero, no dovete lasciarli lì.
Questione di decoro urbano, hanno insistito i contrari. Trovando una inedita sponda femminista: “Abbiamo bisogno di simboli nuovi. Soprattutto in Italia, dove ogni tre giorni una donna muore per mano di un uomo. E quasi sempre la sua colpa sarebbe aver rotto quel lucchetto. Essersi liberata dalle catene, idea malintesa dell’amore”, attacca il prof-scrittore Enrico Galiano. Fatto sta che i lucchetti di Ponte Milvio – dove tutto è cominciato – sono finiti nei magazzini dell’amministrazione comunale, in attesa di un luogo più adatto a esporli in pubblico. Però al cuore non si comanda e qualcuno continua a spuntare di notte malgrado i divieti. Succederà anche oggi, in fondo è San Valentino. Domani no, il 15 febbraio si celebra San Faustino, la festa dei single. Quelli e quelle delle monoporzioni a tavola, dei farmaci monodose, delle monomanie, i monosillabi, i monologhi, la monotonia e, se dovesse capitare, la monogamia: un’altra forma di amore, senza lucchetti e senza baci. Tanti auguri anche a loro.