Dopo migliaia di concerti in tutto il mondo e con una quarantina di dischi all’attivo, la voglia di sperimentare, di mettersi in gioco di Enrico Rava, 84 anni compiuti, non si è ancora esaurita. La storia musicale del jazzista italiano più noto a livello internazionale prosegue ora con un nuovo lavoro, The Fearless Five (prossimo appuntamento a Orvieto, per Umbria Jazz Winter, il 31 dicembre), alla guida di una formazione di giovani di talento. Lo raggiungiamo nel pieno della tournée autunnale che lo ha portato ad Amsterdam, Amburgo, Anversa e al festival Jazz and Wine of Peace di Cormons.

Rava, la sua carriera è una continua sedimentazione di esperienze e di progetti. Lei ha vissuto per più di dieci anni a New York, dove ha costruito una parte determinante del suo percorso artistico. Con questa città ha un legame speciale…
Sono arrivato a New York nel 1967 con il grande sassofonista Steve Lacy, con cui in quel periodo suonavo e realizzavo i primi dischi. Venivamo da Buenos Aires, con la testa e le orecchie piene del tango di Astor Piazzolla, Osvaldo Pugliese, Horacio Salgàn, Enrique Rodriguez. Nella Grande Mela fui catapultato in uno scenario completamente nuovo, esaltante per un giovane come me che era cresciuto a pane e Miles. In quegli anni New York era la capitale mondiale del jazz: c’erano i migliori locali, come il Village Vanguard o il Birdland, in cui suonavano tutti i grandi di allora, da Miles Davis a Thelonious Monk, da Cecil Taylor ad Archie Shepp. Pur essendo poco più che un dilettante, entrai subito nel “giro” che contava, quindi per me fu uno shock suonare con persone di cui fino a poco prima ascoltavo i dischi a casa mia, quando il jazz era solo un sogno.

Com’era la vita quotidiana di un musicista a New York?
Emozionante e piena di sorprese, ma non un pranzo di gala. Per campare ci si arrangiava, suonare nei club non era sufficiente per sbarcare il lunario. Quasi tutti i musicisti avevano un secondo lavoro: qualcuno faceva il tassista, Cecil Taylor lavorava in una libreria, Kenny Dorham faceva il commesso in un negozio di strumenti musicali, io stesso mi barcamenavo fra un ingaggio e l’altro… Ricordo che perfino Gil Evans, al netto delle spese di vitto e alloggio, diceva che in tutto il 1966 aveva guadagnato ben 25 dollari… Fortunatamente gli affitti, anche nelle zone più centrali, erano alla portata di quasi tutte le tasche. Quando abitavo a Manhattan nell’81.ma pagavo ottanta dollari al mese.
Qual era l’atmosfera in città?
Tutti noi musicisti ci sentivamo coinvolti in un grande fermento artistico. A me, ad esempio, piaceva suonare agli eventi dei fratelli Mekas, i fondatori del New American Cinema Group, e mi capitava di condividere incontri con Andy Warhol. Non bisogna poi dimenticare che in quegli anni c’era la guerra in Vietnam e ogni giorno New York viveva qualche manifestazione di protesta. Ho ancora negli occhi l’immagine di veterani poco più che ventenni, pluriamputati ridotti a tronchi umani, che gridavano al mondo il loro dissenso. Faceva parte delle contraddizioni di una città piena di stimoli, di creatività, ma anche dura, aggressiva, intransigente. Luoghi che oggi sono paradiso del turismo, come Times Square e la 42.ma, negli anni Settanta pullulavano di cinema porno, bordelli e peep-show. I marciapiedi erano pieni di prostitute, magnaccia e drogati all’ultimo stadio. Insomma, New York era un calderone in cui sobbollivano bellezza, arte, creatività, violenza e degrado. Se dovessi riassumerla in un’immagine, direi che Taxi Driver di Scorsese ne è la fedele rappresentazione.
Ricorda qualche aneddoto di quel periodo?
Ogni giorno questa città mi insegnava delle cose nuove, mettendomi a confronto con situazioni, uomini e donne fuori dall’ordinario. La mia prima moglie collaborava con un gruppo indipendente di produzione cinematografica di Buenos Aires e io davo una mano a distribuire le “pizze” delle pellicole. Fra gli interessati, c’erano anche i Black Panthers, che avevano sede ad Harlem in un edificio fatiscente dipinto di blu elettrico. Ricordo i loro giubbotti in pelle nera e le armi di ogni tipo che spuntavano fuori dalle loro tasche. Un mondo seducente ma anche spaventoso per un ragazzo come me, nato in una famiglia della medio-alta borghesia sabauda. Se fossi rimasto ben protetto a casa, nell’azienda di famiglia in cui mio padre voleva farmi lavorare, tutto questo non lo avrei mai visto. Invece, ancora minorenne mi trasferii prima a Roma, e poi, appunto, a Buenos Aires e a New York. Ne è valsa la pena, non solo perché ho realizzato, da completo autodidatta innamorato del jazz, il mio sogno di vivere di musica, ma anche perché ho conosciuto realtà e incontrato persone straordinarie, che ancora oggi costituiscono il mio background culturale e umano.

Nel lunghi anni newyorkesi lei ha avuto modo di collaborare in particolare con la Jazz Composer’s Orchestra e con Carla Bley, ma ha suonato anche con musicisti del calibro di John Abercrombie, Joe Henderson, Lester Bowie, Paul Motian, Joe Lovano. Quali incontri hanno segnato il suo percorso artistico e umano?
Tutti sono stati importanti, a cominciare naturalmente da Miles Davis, il mio primo amore giovanile. Avevo tutti i suoi dischi. L’illuminazione avvenne nell’inverno del 1956, quando a Torino vidi un concerto leggendario in cui Miles si esibì con Lester Young e il Modern Jazz Quartet. Ne fui folgorato. Così, a diciassette anni, decisi di comprarmi una tromba, quasi per gioco. Imparai da solo a suonarla, senza prendere lezioni, ma cercando di imitare il Miles di dischi come Bags’ Groove o Blue Moods. Il resto lo devo a Gato Barbieri, e infatti è lui il mio vero mentore, colui che ha davvero cambiato la mia vita. Lo conobbi una sera in cui, per caso, ci esibimmo insieme in un locale in provincia di Torino, io da dilettante assoluto, lui già da solido professionista. Quella sera suonò in modo divino, e riuscì a ispirare anche me. Dopo il concerto restammo a parlare insieme per tutta la notte, e lui mi convinse a lasciare lavoro e famiglia per dedicarmi completamente alla musica. Un mese dopo mi propose di trasferirmi a Roma, per suonare con lui e con il pianista Franco D’Andrea al Purgatorio. Fu quindi per merito suo che mi decisi a mollare tutto, la Torino della famiglia e dell’azienda. E fu sempre Gato a suggerirmi con chi parlare, cosa leggere e cosa ascoltare a Buenos Aires. Il passo successivo, New York, ne fu in un certo senso la logica conseguenza.