È stato emigrante, lottatore, divo della tivù, forzuto da spiaggia. Soprattutto è stato un magnifico picaro di molti talenti e molte vite. Un uomo che si è fatto da solo tra l’Italia e l’America, tra l’Abruzzo e la California.
Michele Leone era nato nel 1909 a Pettorano sul Gizio, paese dell’Aquilano. Il padre Giovanni faceva il muratore, mamma Anna badava alla casa e ai cinque figli: il primogenito Benigno sarebbe andato a cercare fortuna in Argentina sulle orme di papà, poi c’erano Irma e le gemelle Ida e Maria. L’altro maschio si chiamava Michele ed era speciale. La voce del popolo racconta che un circense gli avesse predetto: ragazzino tu hai fegato, muscoli e faccia tosta, diventerai qualcuno sul ring. Così è stato. L’albo d’oro del wrestling recita: campione del mondo dei pesi massimi il 22 novembre 1950 all’Olympic Auditorium di Los Angeles, battendo per schienata Enrique Torres. Sarebbe bastato anche meno perché la piccola patria onorasse quel figlio illustre: il sindaco Antonio Carrara gli ha appena intitolato gli impianti sportivi, tra gli applausi della cittadinanza tutta o quasi imparentata al re del quadrato. Due in particolare: Giovanni Trombetta, docente al Valley College di Los Angeles, e Carmelo Pantè, ingegnere e consigliere comunale, entrambi nipoti del campione. E’ toccato a loro raccontarne parabola umana e gesta sportive.
Il coraggio, il sogno. Seguendo istinto e necessità il giovane Leone attraversò l’oceano fino al Sudamerica. Caricava il carbone sui treni però era attratto dal circo: si era innamorato di una trapezista e in pista faceva la lotta greco-romana. Gli incontri di catch che precedevano gli spettacoli teatrali lo resero popolare nella comunità italiana a Buenos Aires. Era forte, robusto, con la vocazione del globetrotter: tornato in Italia, nel ’35 combatte come professionista a Bologna e Milano. Un muro di nebbia cala sui passi successivi. Risulta che salì sul quadrato nel ’36 a Poitiers, poi Limoges, Lille e Parigi di fronte all’oro olimpico Henri Deglane. C’è traccia di un passaggio in Germania e Ungheria. La svolta all’inizio del ’38: sale sul piroscafo Normandie, destinazione New York. I match vittoriosi all’Hippodrome e alla Fort Hamilton Arena lo proiettano fra i grossi nomi della lotta. Ma la stabilità non è nel suo bagaglio: Michele riempie il baule e riparte per l’Europa. Non solo. Combatte in Algeria e Tunisia e l’eco dei successi rimbalza negli Usa: col biglietto pagato dal manager Jack Pfefer, nel ’39 si imbarca a Napoli sul Saturnia. La meta è il Broadway Central Hotel a New York City, il più lussuoso d’America.
Comincia un capitolo elettrizzante. Il promoter Joe Turner lo porta nella sua Arena a Washington: Michele è più potente che grosso, i 98 chili sono sotto le 220 libbre della categoria dei massimi, ciò malgrado l’ascesa pare inarrestabile. Scocca invece l’ora più buia: la guerra mondiale. Il passaporto italiano rende Michele nemico dell’America, però trasforma il danno in opportunità: diventa un wrestler hell, il malvagio che gioca sporco, irride l’avversario e provoca i tifosi. Una finzione scenica, Leone è attore nato. Opposto al gigante tedesco Hans Kaempfer che inneggia alla Germania nazista, si prende lui l’odio del pubblico. La V di victory impressa sul petto, aizza la platea: . Finito il conflitto mondiale torna se stesso: l’autodidatta buono e generoso che parla inglese, francese e spagnolo. Uno che conosce l’arte del vivere. Così strappa il vecchio copione per inventarne uno inedito nella West Coast: in California si presenta sul quadrato come il Barone, aristocratico italiano dai baffi folti, capelli lunghi, sorriso contagioso e un mantello rosso sulla tunica da centurione romano. Sfodera la mossa letale: il neckbreak, una presa alla testa con ribaltamento del rivale.
Diventa una star. Scrive un libro che vende 25mila copie. La rete Abc lo scrittura per condurre un programma di consigli amorosi. Gli show televisivi fanno a gara per ospitarlo. E’ il volto ideale della pubblicità, gentiluomo che porge alle fan la foto autografata e un’orchidea. Diventa il testimonial della Moto Guzzi e della Continental Airlines. I divi di Hollywood accorrono ai suoi incontri, da Bob Hope a Jane Russel, da Mikey Rooney a Shirley Winters. E’ amico di Primo Carnera, la montagna che cammina, e Bruno Sammartino, il più grande lottatore di sempre abruzzese come lui. Molti anni dopo Lou Ferrigno, l’Incredibile Hulk del cinema, racconterà di averlo considerato un mito fin da bambino. Sul ring vince sempre. Quando schianta Antonino Rocca, italiano d’Argentina, fa il tutto esaurito: diecimila persone a vederlo, altre seimila fuori dai cancelli. Conquista la cintura iridata ma trova il vero antagonista: Lou Thesz, figlio dell’impero austro-ungarico e dominatore della sigla Nwa. Il titolo viene unificato il 21 maggio 1952 all’Hollywood’s Gilmore Field di Los Angeles, davanti a 25.256 spettatori paganti per un incasso di 103.277,75 dollari: record del wrestling. Leone perde con verdetto discusso. Vuole la rivincita, conquista il campionato della Pacific Coast e il titolo mondiale junior, però Thesz è la bestia nera che nel 1954 lo batte altre tre volte.
Dice basta. Nel 1955, a 46 anni, Michele si ritira per godersi la vita con la moglie Billie, sua segretaria di origine danese, ricorda il professor Trombetta che ha rappresentato la famiglia a Wichita Falls, Texas, quando Leone è entrato alla memoria nella Hall of Fame del wrestling. La sua Pettorano l’accoglie d’estate come lo zio d’America: elegante, risata travolgente, l’istrione che si fa spedire per nave la Cadillac. In tuta corre su e giù per le colline, poi si tuffa nella sorgente gelata del Gizio. Affitta una villa al mare dove porta in vacanza tutta la famiglia, la mattina lui e Billie vanno a comprare il pesce sul molo. Dall’Adriatico al Pacifico, nel ’49 si stabiliscono a Santa Monica: giornate dolci sulla battigia e nuotate. Lui continua a curare il corpo strumento di lavoro: bicicletta, corsa sulla sabbia con i pesi ai piedi e ai polsi, dieta ferrea. Si esibisce a Muscle Beach alzando modelle e attrici con una mano. Dopo l’allenamento, scacchi in spiaggia e cocktail per due in terrazza al tramonto.
La felicità si infrange su una fine banale. Travolto da un’auto mentre pedala, il campione muore dodici giorni dopo, il 26 novembre 1988 all’Ucla Medical Center, rievoca il professor Trombetta. Aveva 79 anni. Billie dona i cimeli del marito all’Historical Museum di Santa Monica, accompagnati da un assegno di 103.277,75 dollari: la cifra incassata al botteghino per il match del secolo. Se n’è andata anche lei, a 89 anni, nel dicembre del 2020: le sue ceneri sono in un’urna al Woodlawn Cemetery di Santa Monica, accanto a quelle di Michele. Il Barone e la sua Principessa uniti per sempre.
Discussion about this post