L’anima di Piero filtra solo parzialmente dallo schermo dello smartphone. Non scorre via veloce come le stories social. Si aggrappa a radici solide, quelle della sua terra natia, per poi scivolare in silenzio nel caos di Manhattan.
Piero Armenti ha scritto il suo terzo libro. Il più maturo. Ma c’è chi continua a chiamarlo influencer. E che diamine. Ha messo su un’impresa turistica che fa viaggiare centinaia, migliaia di italiani. Suvvia. E’ un giornalista. Imprenditore. Che sì, nasce come urban explorer, ma poi si evolve, lasciando lì, sullo smartphone soltanto la parte più buffa. Cotta e mangiata. Il Piero che fa impresa e scrive è un altro uomo. Lo ritrovi quando racconta dell’impiccagione di Rose Butler, a Washington Square Park. Lei, schiava afroamericana, che aveva osato tentare di dar fuoco alla casa del padrone. Poi c’è la storia di Nancy Spungen, una ragazza di vent’anni morta dissanguata nel bagno della stanza numero 100 del Chelsea Hotel. O quella di Jacob Riis, che con le sue fotografie raccontò nel lontano 1890 l’altra New York, quella dell’immigrazione, della povertà, dei condomini del malfamato quartiere di Five Points.
“New York Metro per Metro” è più che una guida. Accompagna per mano il lettore nella storia. Non solo cinema. Non solo frivolezze. C’è cultura tra queste pagine, mescolata ad un giusto tocco di intrattenimento e leggerezza.
“Non volevo parlare di cose stranote”.
Non voleva, non l’ha fatto. Si è messo lì, capo chino, a consumare la suola delle scarpe, a studiare e scrivere. “Mi davo un tot di ore al giorno, ho lavorato con disciplina, ma lo sai che ho trovato tanto di quel materiale da farne un’enciclopedia?”
Ad ogni fermata della metro ci sono storie sconosciute da inseguire calpestando marciapiedi umidi, inciampando in brandelli di una città segreta, sporca di lotte intestine, di sangue, di morte. Come la tragedia del General Slocum. E’ il naufragio di un battello tra Manhattan e Long Island. Oltre mille i morti, tra cui molte giovani mamme, solo trecento sopravvissuti. E poi il serial killer di Times Square, tal Richard Cottingham, che di giorno viveva normalmente nel New Jersey con moglie e tre figlie, di notte adescava ragazze tra le luci della città, le portava in albergo, le torturava e le uccideva, amputando loro mani e piedi per far si che non si risalisse alla loro identità. Non solo noir, ma anche storie positive. Come quella di Warren Roebling, prima donna capo cantiere al mondo, con un ruolo di rilievo nella costruzione del Ponte di Brooklyn, tanto da aver l’onore di tagliare il nastro ed attraversarlo per prima. O quella di Pietro Cesare Alberti, il primo italiano ad emigrare in America il 2 giugno del 1635.
Un lavoro certosino, quello di Piero, che chiunque ami New York dovrebbe leggere. Lo ha portato a termine mentre, parallelamente, faceva crescere la sua impresa turistica, che fa ormai viaggiare intere comitive non soltanto verso la grande mela. E poi lo vedremo presto in tv, in sei episodi da quindici minuti in cui accompagnerà coppie di turisti alla scoperta di luoghi magici della città.
“Mi piace molto scrivere” dice. “Lo so” gli rispondo.
Chi non lo conosce, e si ferma allo smartphone, non sa che sto parlando con l’altro Piero. Quello più introspettivo, silenzioso, in cerca di quiete. Osserva e rielabora. Ricorda i dettagli. Ed è incredibilmente riservato, pur saltellando come un equilibrista nella sua vita da social. Ed è lì, a cavallo tra Ig, Facebook e Youtube, che nei giorni scorsi è avvenuta una piccola magia. Le due anime di Piero si sono manifestate insieme, filtrando attraverso alcuni video intrisi di commozione: “ Ho fatto tante cose nella mia vita, ho avuto tante soddisfazioni, ma prendere la cittadinanza americana , così come anche il primo visto, sono stati i momenti più belli per me”.

Una conquista, la cittadinanza, arrivata dopo dodici anni oltreoceano, nel Queens prima, a Manhattan poi. Ci sono stati cambiamenti graduali, la nascita di nuovi quartieri come Hudson Yards. E’ cambiato lo skyline. Poi il Covid, la crisi: “Oggi la città vive ancora un po’ di degrado, l’aumento della presenza degli homeless è evidente, così come lo è l’aumento dei prezzi. Ci sono molti rifugiati ospitati nei vari shelter. E c’è un altro problema: è tornata l’eroina”.
Eppure, nonostante le difficoltà attuali, la città resta quel sogno che è la sintesi dell’America: “E’ la ricerca di costruire in grande, dell’individuo che lotta da solo contro il destino. Qui vedi messa in pratica la narrazione del sogno americano”. Con alcune contraddizioni: “Chi vive nei grandi spazi dell’America ha un rapporto conflittuale con New York. E’ abituato a viaggiare in auto, qui si va a piedi. Ha case molto ampie, qui si vive in spazi stretti. La metropoli, a modo suo, può essere alienante”.
E’ una città che Piero, in questo libro, ci fa scoprire attraverso la storia. Si, quel Piero che cammina a testa bassa per New York, che va a respirare un po’ di solitudine a Central Park, che si apre con gli affetti più cari e si chiude in una stanza quando deve scrivere e pensare. Ma perché, pensavate davvero che vivesse in un tablet?