Era il 29 giugno 1933, giusto novant’anni fa. Sul ring del Madison Square Garden Bowl di New York, a Long Island, Primo Carnera sfidava davanti a 40mila spettatori – moltissimi gli emigrati italiani tra il pubblico – il detentore del titolo mondiale dei pesi massimi. L’avversario si chiamava Jack Sharkey, veniva da Boston ma era di origini lituane: aveva conquistato la cintura iridata l’anno prima, battendo ai punti con verdetto controverso il tedesco Max Schmeling, più tardi protagonista di due match memorabili con Joe Louis. Primo accusò al peso 118 chili, l’americano appena 91. Già nel round iniziale Carnera atterrò l’avversario, che si rialzò immediatamente evitando il conteggio. Il match proseguì in equilibrio per altre cinque riprese. Ma alla sesta il gigante friulano colpì ancora con un sinistro Sharkey, stavolta contato dall’arbitro. Si rialzò, ormai inerme, è subì un montante destro al volto. Una mazzata terrificante che lo spedì al tappeto definitivamente. Vittoria per ko. Fu un evento storico: un italiano diventava per la prima volta campione del mondo di pugilato. L’impresa venne santificata da due telegrammi di ringraziamento: uno alla madre, laggiù a casa, l’altro al Duce del fascismo. La sua fama esplose al di qua e al di là dell’oceano.
Ma chi è stato davvero Carnera? E la sua fu vera gloria? Nato a Sequals, classe 1906, negli annali è definito pugile, lottatore e attore. Di famiglia poverissima, emigrò in Francia come muratore prima e poi come fenomeno da baraccone in un circo: era un omone alto 197 centimetri (ma per alcuni arrivava a 2,05 metri), scarpe numero 52. La sua stazza e la forza smisurata lo portarono naturalmente al pugilato: a Parigi, in Germania e in Inghilterra. Poi in America dove sbarcò nel ’29 con un curriculum di 16 successi e 2 sconfitte. Non aveva tecnica, era lento e rozzo sul quadrato, però la potenza bastava e avanzava per puntare su di lui. A gestirne la carriera era il manager Léon Sée che lo inserì nella scuderia di Bill Duffy, allenatore molto chiacchierato e in contatto con la mafia italo-statunitense. Erano gli anni del proibizionismo, della crisi economica, delle gang e degli affari sottobanco. Carnera vinse prima del limite tutti i 23 match che disputò negli Stati Uniti, quasi tutti senza bisogno di oltrepassare le prime due riprese. Parecchi incontri ebbero un andamento sconcertante: gli avversari cadevano al primo pugno incassato, quasi colpiti da una folgore. Ce n’era abbastanza per sospettare che fossero addomesticati. Primo, ingenuo e in buona fede, all’oscuro dei retroscena torbidi, fu squalificato dalla Commissione pugilistica. Il danno e la beffa, visto che i soldi delle sue borse finivano in mani altrui. La sanzione non valeva però nello Stato di New York: la scalata del colosso tricolore poteva proseguire.
Non subito però. Meglio cambiare aria, meglio riportare quel portento in Europa. Così il 30 novembre 1930, allo stadio olimpico del Montjuic di Barcellona, Carnera si trovò di fronte 90mila spettatori spagnoli e il basco Paulino Uzcudun, che quattro anni prima aveva strappato la cintura europea dei pesi massimi al piemontese Erminio Spalla. Il combattimento fu durissimo. Uzcudun attaccava, Primo colpiva d’incontro dimostrando di aver imparato la lezione e fatto bene i compiti. Si aggiudicò otto round su dieci e soprattutto si mise in tasca la patente di pugile pulito. Con quella nel ’31 tornò in America. La seconda campagna a stelle e strisce fu priva di dubbi: Il friulano vinceva e convinceva. Fu sì sconfitto da Sharkey – per lui l’uomo del destino – ma resistette in piedi con grande coraggio al martellamento del rivale. Si era meritato una seconda opportunità. Che si concretizzò nell’incontro con Ernie Schaaf, il 10 febbraio 1933 a New York. Una sorta di semifinale mondiale finita tragicamente: atterrato alla tredicesima ripresa, Schaaf crollò privo di conoscenza e morì quattro giorni dopo in ospedale. Devastato dai sensi di colpa Carnera annunciò il ritiro. Ma a convincerlo a continuare fu proprio la madre della sua vittima: <Non devi mollare, torna ad allenarti e prenditi il titolo nel nome di mio figlio>, gli disse. E così fu.
Dopo il trionfo su Sharkey, la fama del campione italiano esplose al di qua e al di là dell’oceano. Gigante dall’animo gentile, diventò amico fraterno del suo più acerrimo avversario: Paulino Uzcudun, battuto nella difesa per il titolo a Piazza di Siena a Roma davanti a 60mila spettatori. Ad assistere al match c’era in prima fila Mussolini, che lo volle con sé al balcone di piazza Venezia. Carnera pareva imbattibile ma perse il titolo il 14 giugno del ’34 per mano dell’americano Max Baer, idolo delle donne. Penalizzato da una caviglia rotta che gli provocava dolori lancinanti, in condizioni di palese inferiorità, subì 11 atterramenti in 11 round senza arrendersi. Perché un mito cade in piedi. Il mantello della gloria lo avvolgeva comunque: fu reclutato dal cinema a Hollywood e in patria, dove recitò accanto a Totò e poi diretto dal maestro Blasetti.
La sua popolarità trascendeva l’aspetto sportivo: fu ospite in tivù di Mario Riva ne Il Musichiere, dove si esibì come cantante, e un manifesto dell’epoca lo vide pubblicizzare la macchina da cucire Necchi, portata nel salotto di tutti gli italiani. Aprì in America un ristorante e un negozio di liquori, fece studiare lì i due figli – il suo orgoglio – al college. Lasciò la boxe a 41 anni, ma risalì sul quadrato del wrestling esibendosi amatissimo anche da lottatore in piazze e palasport. Finché abbandonò i combattimenti e gli Stati Uniti per tornare a casa poche settimane prima di morire, minato dal diabete e dalla cirrosi: aveva 61 anni. Chiuse gli occhi il 29 giugno 1967, nel trentaquattresimo anniversario del trionfo mondiale a New York. Il suo nome è rimasto leggendario e mai dimenticato, paradigma di forza nella cultura di massa e nell’immaginario collettivo. La villa liberty che si fece costruire a Sequals, dove tutto era cominciato, è oggi un museo dedicato a lui.