La moda contemporanea degli Stati Uniti compie cinquant’anni. Era il 28 novembre del 1973 quando cinque stilisti americani e altrettanti francesi si sfidarono a Parigi nella sfilata più ardita della storia, nota come la Battaglia di Versailles. Eleanor Lambert – creatrice della Fashion Week di New York, della camera della moda e del moderno Met Gala – ebbe l’idea di un evento di beneficenza per la ristrutturazione della reggia di Versailles. Convinse il curatore del palazzo e suo amico Gerald Van der Kemp ad organizzare un gala a cui invitare un pubblico pagante d’eccezione – aristocrazia, alta borghesia e frequentatori del beau monde – offrendo in cambio un fashion show; designer statunitensi e couturier parigini avrebbero messo in mostra le loro creazioni al Théatre Gabriel di Versailles, inaugurato nel 1770 per la celebrazione del matrimonio di Luigi XVI con Maria Antonietta. Il trionfo della moda Made in Usa di quella notte segnò il sorpasso del prêt-à-porter – capi confezionati in serie – sulla haute couture, all’epoca fiore all’occhiello della Francia.
Delle origini e dei fatti del fashion a stelle e strisce ci ha raccontato vis-à-vis la top model Alva Chinn, figura leggendaria di quel cosmo. Da Madamoiselle a Bazaar a Vogue America, la sua è stata una carriera da musa, costellata di successi e di amicizie fortunate – da Oscar de la Renta ad Halston, da Andy Warhol a Gianni Versace. Afroamericana, nata a Boston poco più di settant’anni fa, Chinn insieme agli occhi ambrati e a un viso giovane, conserva intatti portamento e corpo atletico. Nonna di Maximus, sogna il cinema, mentre insegna yoga e fa la mature model, come le piace definirsi.
Alva Chinn faceva parte del gruppo delle “muse” di Roy Halston, soprannominate “The Halstonettes”. Il designer che rivoluzionò la moda femminile negli Stati Uniti con la prima boutique di prêt-à-porter su Madison Avenue e l’abito modello caftano, tuttora imitato. “Che lavoro meraviglioso il mio, un dono con la fortuna di essere pagata per divertirmi” esordisce Alva, davanti ad una pizza margherita e ad un bicchiere di Aglianico.
In che modo ha iniziato?
Erano i primi anni Settanta, avevo abbandonato gli studi ad un passo dalla laurea e il fidanzato mi aveva mollata. Una mattina, mentre piangendo lo raccontavo ad un amico, la cameriera del caffè dove eravamo seduti mi porse un biglietto da visita. “Con le lacrime ti rovini quel viso – mi disse – questo agente cerca belle ragazze, chiamalo”. Ignoravo cosa fosse un agente e mi vedevo piuttosto goffa. Tentai per desiderio di evasione, invece fui assunta. Poche settimane dopo arrivai a New York.
Come andò?
Incontrai le persone giuste, poi l’opportunità si presentava grazie al passaparola, se eri brava ti raccomandavano. Fu così con Oscar de la Renta, conosciuto durante un servizio fotografico. Al magazine Ebony (mensile il cui target è la comunità afroamericana n.d.r.) non era concesso portare i vestiti fuori dagli showroom così ci recammo a quello di de la Renta sulla Settima Strada. Oscar venne inaspettatamente sul set e quando mi vide disse: “Wow ho come la sensazione di stare a casa”. L’ho amato subito, per me casa è sinonimo di cuore. Quindi mi propose a Stephen Burrows per cui sfilai per la prima volta. Entrambi, miei estimatori, mi presentarono ad Halston.
Man mano che fama e popolarità di Halston crescevano, anche quelli con cui lavorava divennero famosi.
Il maestro. Halston aveva un talento eccezionale con il difetto del perfezionismo, un’utopia. Che gran dolore averlo perso così presto.
Era anche vicina ad Andy Warhol.
Con lui condividevo una grande timidezza. Ricordo che trascorrevamo ore ad osservare la gente senza fare commenti o dare giudizi, sempre in silenzio. Eravamo in perfetta sintonia.
Negli anni Settanta gli Stati Uniti facevano i conti con la guerra del Vietnam, l’embargo petrolifero e New York City, in particolare, era a rischio bancarotta. E la moda?
Era in grande fermento ma credo che la gente comune non ne fosse consapevole. Non c’era interesse, non ricordo tendenze diffuse né affezione per gli stilisti. Era un mondo anche a me ignoto prima che diventassi modella. Conoscevo soltanto Steven Burrows. Lui fece una cosa diversa, riuscì ad attrarre i giovani e ammiratori diversificati. Come donna di colore sapevo che creava anche per la mia gente, mi sentivo inclusa perché era come me. Quanto ho desiderato i suoi vestiti coloratissimi!
Parliamo della Battaglia di Versailles, evento che l’ha vista protagonista.
Fu un’idea geniale, proprio come lo era Eleanor Lambert. Una donna benevola che ha aiutato molti talenti, regalando alla moda del nostro Paese fama e riconoscenza. E probabilmente la sfilata della Battaglia di Versailles è stata il suo fiore all’occhiello, l’occasione in cui gli stilisti americani hanno fatto sentire al resto del mondo la loro presenza.
Lei approdò a Parigi con quaranta colleghe, la cantante Liza Minelli e i designer Anne Klein, Bill Blass, Stephen Burrows, Oscar de la Renta e Halston, chiamati a sfidare i francesi Hubert de Givenchy, Emmanuel Ungaro, Pierre Cardin, Yves Saint Laurent e Marc Bohan della Maison Dior.
Nessuno di noi pensò a quella serata come ad una competizione, ancor meno come ad una battaglia. A me interessava solo andare a Parigi, ero al settimo cielo. La stilista Anne Klein ci regalò persino il soggiorno dell’intero weekend, tre giorni indimenticabili. Fu un ultimo gesto di affetto nei nostri confronti perché tre mesi dopo ci lasciò.
Cosa accadde realmente a Versailles?
Eravamo inconsapevoli di tutto, ci sentivamo un po’ come bambini in un mondo di adulti. Yves Saint Laurent aveva appena aperto una boutique di prêt-à-porter a Parigi, dunque non portavamo nessuna novità. Per la stampa vincemmo per lo spettacolo, anche rocambolesco, perché esprimeva leggerezza e libertà. Noi modelle rendemmo vivi gli abiti, animati dall’energia individuale piuttosto che fungere da appendiabiti che camminavano. Avevamo enfatizzato la moda come una sorta di intrattenimento portando le passerelle fuori dai salotti dove le signore prendevano il tè mentre le indossatrici camminavano per la stanza. Demmo l’impressione di essere libere di scegliere il nostro stile.
Cosa ricorda in particolare di quell’evento?
Dopo aver sfilato andai tra il pubblico. Alla vista dei look di Pierre Cardin pensai ad uno show fuori dall’universo, ebbi un sussulto. Ma chi ero io per poterlo definire prodigioso? Poi, nel 2019 vidi la retrospettiva su di lui al Brooklyn Museum (Pierre Cardin: Future Fashion n.d.r.). Leggendo di quelle creazioni mi resi conto di quanto la mia percezione fosse giusta, non era mai stato visto nulla di tanto creativo. Fu un ricordo commovente.
La battaglia di Versailles, vista sotto diverse lenti, fornì anche un palcoscenico internazionale al movimento “Black Is Beautiful” nato nel 1960, poiché 10 delle 36 modelle e uno dei cinque designer del “team” USA -Stephen Burrows – erano afroamericani.
La prima modella di colore non è salita in passerella negli anni Novanta. Un certo revisionismo ha voluto cancellare una realtà forte come me, Pat Cleveland, Billie Blair e tante altre. Charlene Dash, ad esempio, lavorava sia per Vogue che per Harper’s Bazaar, e non era scontato perché se ti selezionava una pubblicazione diventavi sua esclusiva. Senza dimenticare Beverly Johnson, nel 1974 fu la prima modella afroamericana sulla copertina di Vogue.
Poi cosa successe?
Dopo Versailles le richieste fioccarono a destra e manca, da Parigi a Milano dove il ready to wear la faceva da padrone. Quanto mi piaceva andare per musei e gallerie lì! Però, la prima sfilata in Europa la feci a Roma per Valentino haute couture a gennaio del 1974.
Preludio considerevole
Valentino lo conobbi tramite Oscar de la Renta a New York. Da indossatrice dovetti camminare tra le signore con una paletta numerata nella manica del soprabito. Era così scomodo che la lanciai tra il pubblico e feci a modo mio. Credo che quella circostanza mi aprì la strada in Italia. Due giorni dopo Bazaar mi volle per un servizio che intitolarono Alva nel Gazebo e Milano divenne una meta fissa.
Gianni Versace la ingaggiava in esclusiva
Lui resta tra i miei preferiti. La gentilezza e la cura per chi aveva di fronte rendevano Gianni diverso dagli altri. Era unico. Mi sovvengono le esperienze con le sorelle Fendi, sgarbate e rigide come dei militari. Sentivi gridare: “le bionde a sinistra, le brune a destra, le nere qui” e via discorrendo.
Da poco tempo è tornata a lavorare per la stessa agenzia con cui ha iniziato, oggi con proprietario e nome nuovo – Maggie. A parte questo, cosa è cambiato nel suo settore?
Ai miei tempi, fare la modella significava apprendere un mestiere sul campo. Ci veniva chiesto di far brillare gli indumenti, incoraggiate a sentire nostri gli abiti. C’era intesa incrociando gli occhi degli spettatori, cosa che faccio tuttora. Questo prima che alle colleghe venisse chiesto di guardare dritto in camera e portare il broncio. Oggi l’individualità manca del tutto e ho l’impressione che i professionisti valgano meno di chi pensa che basti scattare un selfie per diventare modelli. Mi sembra un’ingiustizia.
Cosa sogna?
Il cinema. Mi iscrissi a scuola di recitazione ma scappai da Los Angeles, troppe proposte indecorose. Ora ho in mente la stesura di una commedia divertente sulla terza età, che mi vede attrice protagonista.
Cosa ama indossare?
I jeans, di tutti i modelli. Universali, I can go down and up!