Sala piena, tutto esaurito per un documentario coraggioso ma insieme intimo, sincero, onesto. Una storia di ragazzi in transizione dal femminile al maschile raccontata insieme a loro, con il loro consenso e la loro collaborazione da un regista sensibile e rispettoso. Tutto questo è “Nel mio nome” o “Into My name” presentato al Human Rights Watch Festival e da oggi a domenica 11 giugno visibile in streaming (https://www.hrwfilmfestivalstream.org/film/into-my-name/).
Il film inizia al buio, le voci di quattro ragazzi Nico, Andrea, Raffaele e Leo, raccontano, ridono, si sovrappongono in quello che sarà il podcast di Leo. Il regista ce li fa incontrare così, senza farceli vedere, per creare un rapporto diretto con le loro voci, le loro esperienze. Poi li scopriamo e Nico è immerso nella campagna che ama, Andrea batte i tasti sulla adorata macchina da scrivere rossa, Raffaele sceglie il colore della sua bicicletta e l’ultimo lavora al suo podcast. “Quello che vi chiedo – dice Leo – non è dirmi come avete scoperto di essere trans o perché siete trans, perché queste sono le domande di chi pensa che maschile e femminile siano limiti impenetrabili come le colonne d’Ercole o la forza di gravità.” No Leo vuole i ricordi dell’infanzia, i colori e i suoni che percepivano, come erano insomma e come sono, cosa provano, cosa sognano. E attraverso le loro parole noi spettatori ci avviciniamo ad una mondo che troppo spesso ignoriamo e stereotipizziamo.

“Questo film l’ho fatto perché una notte ho ricevuto una lettera da mio figlio – spiega Nicolò Bassetti, il regista – una lettera importante, piena di parole coraggiose. Sostanzialmente diceva: non mi riconosco nel genere femminile, devo cercarmi in una nuova identità. All’inizio non è stato facile leggere quelle parole, mi dicevano che Matteo si sentiva sull’orlo di un vuoto, poi ho capito che mi indicava una strada, molto coraggiosa, che mi avrebbe permesso di vedere il mondo da un altro punto di vista. Avrei voluto raccontare questa storia subito, ma non sapevo se era giusto, quando ne ho parlato con lui è stato subito d’accordo e dalla nostra conversazione è scaturito il progetto, così come l’ho poi realizzato.”
Una bella sfida per un padre coinvolto direttamente, ma la prima condizione del figlio è stata di rimanere fuori dal documentario e Bassetti si è rivolto ad una associazione di Bologna. “Dovevo rimanere lontano dallo sguardo del padre e rimanere in quello del documentarista. Mi sono messo al servizio di questi ragazzi cercando di dare voce a chi di solito non ce l’ha. Volevo raccontare la loro quotidianità il loro diritto a essere felici, senza dover sempre passare attraverso la loro identità sessuale che è la base della discriminazione.” Bassetti ha passato due anni e mezzo con i ragazzi, ma il 90% del tempo lo ha trascorso cercando di conoscerli e creare un rapporto di fiducia. “E’ vero che avere un figlio trans mi faceva accettare più facilmente, ma io ho chiesto loro di regalarmi la loro privacy e il film lo abbiamo realizzato insieme.”
Il documentario è stato visto da Elliot Page che, entusiasta, è subentrato come executive producer, è stato presentato alla Berlinale, acquistato dalla BBC, che lo propone sulla piattaforma streaming, ma non dalla RAI.

Matteo Bassetti era presente alla proiezione del film al Festival e ha spiegato molto semplicemente una assoluta verità: “Volevo che fosse mostrata la nostra umanità, che la gente ci si mettesse in connessione e capisse che abbiamo dei diritti, e riuscisse così a superare gli stereotipi per cui i trans devono essere salvati o condannati.”
L’effetto del film è profondo, Bassetti ci accosta a sensibilità che hanno sofferto, per la mancata appartenenza, hanno analizzato, capito e scelto. Ragazzi forti, coraggiosi. Un film che dovrebbero vedere tutti.