Ne hanno parlato i giornali di tutto il mondo, il suo caso ha sollevato indignazione nel mondo della politica e della diplomazia che ha chiesto conto ai responsabili del suo destino. La sua famiglia ha pregato, supplicato. Nulla è servito a salvarle la vita. Rayhaneh Jabbari, una ragazza iraniana colpevole di aver resistito ad un tentativo di violenza carnale pugnalando l’assalitore, è stata impiccata dopo sette anni di prigionia e torture, dal regime iraniano, a soli 26 anni. Di questo parla “Seven Winters in Teheran”, il primo film presentato dal Festival Human Rights Watch in corso dal 31 maggio all’8 giugno a New York. Il documentario, già mostrato al festival dei documentari di Copenaghen e alla Berlinale, è devastante. Per noi occidentali, vissuti in regimi democratici, dove spesso la pena di morte non è neppure più in vigore da tempo, seguire il racconto delle bugie, vessazioni, torture per estorcere una falsa verità, finti processi e infine esecuzione di una pena che risale all’antico occhio per occhio di biblica memoria, è scioccante.
Perché il caso di Rayhaneh non è isolato, non lo è nel suo paese, dove la morte a settembre della 22enne Mahsa Amini in prigione per non avere coperto la testa con l’hijab, ha scatenato le infinite inarrestabili proteste delle donne, non lo è in Egitto dove Giulio Regeni è stato massacrato, non lo è in tutti i regimi autoritari dove i diritti umani non si sa cosa siano.
Nell’estate del 2007 un uomo si è avvicinato a Rayhaneh e dicendole di aver sentito che era una decoratrice di interni, la ragazza studiava architettura e faceva piccoli lavori, le ha proposto di rinnovare il suo studio medico. Una volta sul posto ha cercato di violentarla. Lei si è difesa, lo ha pugnalato ed è fuggita. Arrestata è stata accusata di omicidio premeditato, condannata a morte a meno di non ritrattare l’accusa che infangava l’onore dell’uomo. Questa la condizione posta dalla famiglia di lui. Reyhaneh non ha mai ritrattato, ha sostenuto la sua verità al costo della sua vita. ed è stata uccisa a 26 anni.
La regista Steffi Niederzoll ha usato film casalinghi di quando Reyhaneh era bambina e adolescente, ha intervistato la madre Shole, le sorelle Sharare and Shahrzad, e il padre Fereydoon da lontano, un incontro virtuale. Dopo la morte di Reyhaneh infatti la mamma e le sorelle sono riuscite a trasferirsi in Germania, al padre non è stato dato il permesso di uscire dal paese. Il diario e le lettere di Reyhaneh sono stati letti dall’attrice Zar Amir Ebrahimi.
Il festival Human Rights Watch, arrivato alla sua 34esima edizione, è presentato in collaborazione della Film Society del Lincoln Center. In programma 10 documentari su argomenti come la guerra in Ucraina, “When Spring came to Bucha”, le condizioni climatiche “Razing Liberty Square”, i diritti transgender, l’italiano “Into my Name”, diritti delle donne “Draw me Egypt”, la libertà di stampa “The Etilaat Roz” e l’accesso alle cure mediche negli Stati Uniti “Pay or Die”, per citarne alcuni. I film saranno proiettati all’ Elinor Bunin Munroe Film Center al Lincoln Center e al IFC Center al Greenwich Village. Sono disponibili anche in streaming.
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