I ballerini arrivano di corsa, sembrano bambini usciti in cortile, pieni di energia. Ognuno si lancia in un assolo come a dire: venite a giocare con me? Lo sfondo è un meraviglioso quadro di Kandisky, “Color Study: Squares With Concentric Circles,” creato nel 1913. La musica, il martellante pianoforte, portato in scena e parte integrante dello spettacolo, della versione originale di “Quadri di una esposizione” di Modest Mussorgsky. La coreografia di Alexei Ratmansky, prodigio di origine ucraino-russa. Tutto predispone ad una meravigliosa serata di danza creativa, geniale, innovativa.
Siamo al David Koch Theater per una serata di New York City Ballet, la straordinaria compagnia creata da Balanchine nel 1948. Ballerini perfetti, professionisti impeccabili.
“Quadri di una esposizione” è il quarto balletto creato da Ratmansky per il New York City Ballet, nel 2014, sei anni dopo aver lasciato il Bolshoi e aver iniziato a lavorare stabilmente in occidente. E’ una coreografia piena di invenzioni, combinazioni inedite di passi, che spingono i ballerini a tecnicismi estremi. Tutto è perfetto, veloce, pieno di energia, ma, non comunica emozioni. Sembra un esperimento perfetto che non ha dato alla fine l’alchimia sperata. Non si è trasformato in un fluido scorrere di movimento nell’aria e nello spazio, ma è rimasto uno spezzettato insieme di scene e passi. Ci sono combinazioni molto classiche, contrazioni moderne e richiami alle danze popolari russe. Scene basate sulla geometria, altre sul gioco, altre di virtuosismo puro. I ballerini sono bravissimi, ma la loro tecnica infallibile rimane distante. Diverse altre coreografie di Ratmansky, come “Whipped Cream” creata per l’American Ballet Theatre nel 2017: un insieme esplosivo, con uno stile unico, fluido, continuo. (https://lavocedinewyork.com/new-york/2022/10/21/a-new-york-lamerican-ballet-theatre-apre-la-stagione-con-whipped-cream/)

Il coreografo, che si trovava al lavoro al Bolshoi il 24 febbraio quando è iniziata l’invasione e insieme al suo team ha lasciato immediatamente il paese giurando di non tornarci finché ci sarà Putin, ha concluso “Quadri di una esposizione” con una dedica all’Ucraina: la proiezione della bandiera sullo sfondo quasi come un quadro di Kandisky.
Ratmansky questa estate lascerà l’American Ballet Theatre dove da 13 anni è artist in residence per trasferirsi stabilmente al New York City Ballet. “Era tempo di cambiare per non ripetersi” ha spiegato, aggiungendo di sentirsi ispirato dall’eredità lasciata da George Balanchine. Il filo che lega i due coreografi è diretto e non a caso alla coreografia contemporanea di Ratmansky è stato fatto seguire il classicissimo “Swan Lake” nella rielaborazione sintetica di Balanchine.

Pare che Balanchine non lo volesse allestire, ma che, pressato dai sostenitori della sua giovane compagnia che volevano qualcosa di più classico oltre alle sue composizioni avant garde, si sia prestato alla fine a farlo. Con la condizione che avrebbe dato una sua versione. E certo l’atto unico creato nel 1951 poco ha a che fare con l’originale. Basato sulla coreografia del secondo atto di Lev Ivanov del 1895, usa brani tratti dal secondo e dal quarto atto e li unisce a sua discrezione in un grande divertissement.
Balanchine ha tagliato tutto quello che riteneva superfluo per lasciare solo le parti più danzate, così facendo ha eliminato del tutto Odile e quindi il dramma dalla opposizione di bene e male, cigno bianco e cigno nero. Ha cancellato tutti i riferimenti alla corte, la scena del ballo, la regina madre e quando appare il mago cattivo Von Rothbart non si capisce da dove venga e perchè. Così come non si capisce perché i cacciatori entrano in scena all’inizio e alla fine dal momento che è stato eliminato il contesto narrativo che ne spiega la presenza.

Balanchine amava Tchaikovsky, gli ricordava la sua terra, il suo primo ruolo da ballerino era stato Cupido ne “La bella addormentata” al Teatro Mariinsky di Pietroburgo, per le sue coreografie ha usato gli spartiti del compositore da “Serenade” (1935), a “The Nutcracker” (1954) ai “Diamonds” di “Jewels” (1967). Poco prima della sua morte nel 1983 ha rivelato in un’intervista che quando nella sua vita aveva avuto bisogno di aiuto aveva fatto ricorso mentalmente al compositore e senza di lui non ce l’avrebbe fatta, che insomma lo considerava una figura paterna. Una figura con cui era in tale confidenza da poterci giocare, tagliando e incollando pezzi del suo balletto.
La prima produzione di questo atto unico è stata disegnata da Cecil Beaton, poi ripresa e riconfigurata fino all’ultima versione del 1986 di Alain Vaes che ci trasporta in un mondo di ghiacci e stalattiti popolato da tanti cigni neri. Pare che Balanchine avesse ordinato tanto tulle nero prima di morire dicendo semplicemente che esistono anche i cigni neri. Ma i cigni neri, lo diceva Giovenale e in tempi recenti lo ha confermato Nassim Nicholas Taleb, sono rari, e tali forse devono rimanere. Il “Lago dei Cigni” è di quattro atti e questa versione, bellissima, perfetta, è un’altra cosa. E’ una sinfonia, un divertissement, liberamente tratto da Tchaikovsky.