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May 25, 2023
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Dalla televisione alla politica: “The Diplomat” suggerisce un percorso

C'è un discorso nella serie che vale la pena raccontare

Angelo FigorillibyAngelo Figorilli
Dalla televisione alla politica: “The Diplomat” suggerisce un percorso

Rufus Sewell nel ruolo di Hal Wyler nella serie Netflix The Diplomat

Time: 2 mins read

Fa discutere e divide la serie americana di successo The diplomat. C’e chi la considera inverosimile e chi invece la giudica capace di immaginare una realtà possibile. Ma a un certo punto c’è un discorso che vale la pena raccontare.

La diplomazia non funziona mai. Tranne quando funziona. Siamo all’ultima puntata. Niente spoiler, succederanno ancora cose, ma ora sale sul podio Al Wyler, controverso ex diplomatico e soprattutto adesso solo marito di Kate, nominata in modo rocambolesco nuova ambasciatrice americana a Londra.

Lui deve sostituire in un discorso accademico sua moglie impegnata a districarsi nel casino provocato tra potenze, una portaerei inglese affondata chissà da agenti iraniani, no forse russi. Abbiamo alle spalle otto puntate in cui si mescolano geopolitica in pillole e dramma di coppia in crisi che ognuno giudica come vuole, intrigante, superficiale, brillante direi, almeno nella scrittura dei dialoghi serrati tra lui e lei e quelli tra lei e i suoi collaboratori, tra lei e il vecchio presidente in cerca di nuovo smalto per il prossimo mandato (Biden per esempio). Siamo in un presente che già prevede una guerra in Ucraina, un problema permanente con l’Iran e attriti tra inglesi e francesi.

Tutte cose che nelle migliori serie di genere vengono apprezzate dal pubblico per la capacità abile degli sceneggiatori di azzardare scenari e sviluppi con mesi se non anni di anticipo sulla realtà. Ora torniamo a quel palco e al discorso che il vecchio ambasciatore, considerato pericoloso perché bravo, ma dal carattere imprevedibile, sta per pronunciare sul senso e il valore della diplomazia. Di fronte a diplomatici di carriera e giovani laureati esordisce dicendo: c’è un stupido luogo comune sulla politica estera che dice: parlare coi nemici serve solo a legittimarli. Pausa. E invece, aggiunge, parlate con tutti, vi prego, parlate con tutti. Parlate coi dittatori e con i criminali di guerra, parlate con i terroristi, parlate con quelli che hanno il potere ora ma anche con quelli che l’hanno perso.

Fallirete, e poi fallirete ancora  e allora datevi una ripulita e tornare a parlare. Perché, ecco la frase chiave “la diplomazia non funziona mai, tranne quando funziona”. Perché, maybe.. perché forse.. pausa.. perché forse si. Applausi. Ecco che d’improvviso la serie discussa perché inverosimile o sdolcinata o piena di errori piazza un discorso che oggi nessuno sembra poter o voler fare più. Dovrebbero mettersi allo specchio da soli in camera i diplomatici, i politici, gli opinionisti e provare a ripeterlo. Parlare con tutti perché solo così, forse. E invece.

La politica dei talk show e dei social non prevede la riservatezza, la zona d’ombra, la disponibilità a rischiare di sbagliare per cercare una via d’uscita. Se solo accenni a un dubbio sei crocifisso. Sull’Ucraina, per esempio, tutto sembra cristallizzato al tema legittimo della pace giusta, cioè con la Russia che torna indietro e restituisce tutto quello che ha invaso. Tutto giusto ma maybe, la speranza è che ci sia qualcuno che parla con tutti, che lo stia facendo ora, coi dittatori e con i terroristi, senza dirlo magari, perché sa che di regola non funziona ma, forse.

Per me quel discorso vale il biglietto per tutte le otto puntate. E se qualcuno lo ripetesse nel prossimo talk, maybe.

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Angelo Figorilli

Angelo Figorilli

Angelo Figorilli ha lavorato per anni in Rai come giornalista. Ha viaggiato un po’ in giro, in Afghanistan e Iraq per le guerre, in Francia per le rivolte nelle banlieues, in America per Obama e per Trump. È stato anche molto in redazione davanti al computer, fino a dirigere gli esteri del Tg2. Ha scritto i libri “il cane Patàn e altre storie” “Banlieues i giorni di Parigi” e “Lettere che non sapevano dove andare”. Ora vive tra Roma e l’ultima spiaggia, trova finalmente il tempo di leggere e di lavorare con calma al documentario “L’uomo più buono del mondo, la leggenda di Carlo Tresca”.

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