FOMO è un acronimo assai diffuso in questi tempi bui e sta per Fear of Missing Out (Paura di perdersi). Invece il coreografo israeliano Ohad Naharin ha scelto volutamente un acronimo più roseo MOMO, ossia Magic of Missing Out (Magia di perdersi) per la sua ultima creazione donata alla Batsheva Dance Company. L’ha fatto da par suo: creando uno spettacolo perfetto nella costruzione coreografica, vibrante nella sapienza espressiva e tecnica dei suoi danzatori (tra i migliori e più duttili nel mondo contemporaneo) e sottilmente innervato da un tema interpretabile da diversi punti di vista ma convergente verso la nostra indistruttibile fragilità, piena di crepe che tuttavia non hanno bisogno di essere restaurate bensì accettate.
Solo esponendosi alla fragilità della vita si comprende che qualcosa d’indistruttibile la sorregge, direbbe Jean-Luc Nancy, scomparso filosofo francese.

Nei molti anni di lavoro e di ricerca con la compagnia fondata nel 1964 a Tel Aviv dalla baronessa Batsheva de Rotschild come succursale della Martha Graham Dance Company, ma anche per il Junior Batsheva Ensemble, il precocissimo ballerino e poi coreografo oggi settantenne Naharin ha creato un repertorio più che vasto. Vi si ravvisano ben poche pièce in cui la danza non rifletta sottotraccia, e senza cenni didascalici, un pensiero di solito attinente alla necessità di esprimere un qui e ora sociale.
Inutile soffermarsi sulla biografia di Ohad, molto nota e se non lo fosse, ben narrata nel raccomandabile film Mr.Gaga (2015) di Tomer Heymann – ove Gaga sta per il metodo ideato dal nostro artista per liberare il corpo e tutti i sensi, persino l’olfatto, di professionisti e dilettanti. Per MOMO è sufficiente rammentare il suo stato attuale di coreografo “residente”. Una condizione vicina e lontana dalla Batsheva da lui diretta dal 1990 al 2018, che gli ha già consentito di attivare una maggiore attenzione – sono le sue parole – alle singole personalità ma anche ai desideri dei suoi danzatori.
MOMO contrappone su di un palco vuoto, il cui fondale è non a caso una parete da arrampicata con appigli per mani e piedi, due tipologie umane divergenti. Quattro danzatori in jeans, a torso nudo, forti, muscolosi e molto simili tra loro, sono i primi a entrare in scena con un certo piglio militaresco. Poco alla volta, in punta di piedi, e sempre con una circospetta timidezza arrivano un dinoccolato e magrissimo ballerino con una tutina rosa da bebè, un tipo in tutù che non evita certe posizioni accademiche, una star di colore, seguita da altre quattro ballerine libere di piegarsi e belle nell’ancheggiare sulla musica di Laurie Anderson e Kronos Quartet dal comune album Landfall. L’aggiunta di una giapponese minuta, la bocca biascicante e piena del suo chewing-gum, porta tutti in proscenio, tra urla e canti, dopo un’azione collettiva magistralmente orchestrata nel caos, ove comunque i quattro “eroi” stanno sempre nel mezzo. Pacifici o battaglieri, essi non si mescolano mai ai bizzarri personaggi queer. Anzi, arrampicandosi sul fondale, seduti come giudici altezzosi, i maschi doc osservano le stupefacenti contorsioni alla sbarra di danzatrici fluide e acrobatiche e di danzatori guardinghi su Madre Acapella un celebre pezzo dolente della cantante venezuelana Arca. Quelle e quelli sono appunto “i diversi” e taluni, ironicamente, proprio agghindati da artisti di teatro, da ballerini e perciò esclusi dal mondo degli uomini in jeans normali.

Eppure mentre la musica trascolora in Philip Glass tutti gli undici interpreti si ritrovano in fila, in proscenio, e girando la testa a destra e sinistra iniziano a guardarsi. Ogni “diverso” dà qualcosa di sé, nei gesti, nel camminare, nel contorcersi, staccandosi dalla fila. Questa ricerca di attenzione appare vincente. Quando spariscono dalla parete del climbing sulla quale si sono arrampicati anche loro, alla rinfusa, lasciano i quattro uomini di una presunta, e comunque di certo omologata tradizione o etnia, in mezzo al palco del grande Lac di Lugano. Essi si abbracciano, creano un girotondo giocoso: per magia si diffonde un alito di speranza. Alla maestria di Naharin che ancora una volta si dispiega davanti ai nostri occhi e ci parla di effrazioni umane, d’indifferenza che può risolversi nel suo contrario, capita di ravvisare quell’assenza di scabrosità in superficie che sottrae un po’ di naturalezza all’insieme. È un neo da appurare e ne avremo modo. Dopo un lungo tour francese e da settembre/ottobre, MOMO sarà tutto italiano, in scena dai suoi coproduttori: i festival TorinoDanza con il Teatro Stabile di Torino, “ Aperto” di Reggio Emilia e della Fondazione I Teatri, il Teatro Grande di Brescia, Orsolina 28 Art Foundation, a Moncalvo.
MOMO di Ohad Naharin, Batsheva Dance Company, Suzanne Dellal Centre, Tel Aviv, 19-20 maggio; Théâtre Paris-Villette, 24 maggio – 3 giugno 2023.