Se è vero che le creazioni di danza attraversano le epoche storiche come leggende, acquisendo una patina di ritualità, La bayadère si deve considerare un rito inesauribile, a un tempo antico e nuovo. Sulla novità ha puntato il coreografo francese Benjamin Pech, già étoile parigina accanto ad Eleonora Abbagnato in varie occasioni e anche da quando, nel maggio 2015, la star siciliana assunse la direzione del Balletto dell’Opera di Roma.
Colore, ritmo, più movimento al posto della pantomima, caratura vincente degli ospiti, recenti transfughi dalla Russia Olga Smirnova, Jacopo Tissi, Victor Caixeta e Maia Makhateli – sono tra gli ingredienti di successo del balletto in tre atti, assieme alla tenuta del Corpo di Ballo capitolino e dei suoi solisti. Senza tradire l’originale di Marius Petipa (del 1877, in quattro atti e sette scene), la musica di Ludwig Minkus, appena tinta da citazioni da Paquita, e la trama che vi è narrata, Pech ha offerto un classico del repertorio alleggerito, rivolto a un pubblico attratto da belle immagini (scene di Ignasi Monreal, e costumi di Laura Biagiotti), da un Oriente dorato, rosso e bianco, asciugato da ogni chincaglieria, ma anche fiabesco, quasi infantile.

Persino la scelta di spiegare a parole ciò che accade, momento per momento sopra il sipario, accontenta quel pubblico tecnologico che si perderebbe nella lettura del programma di sala. Intrighi e vendette, sacro contro profano, nutrono una narrazione da opera lirica. Due donne, Nikiya, una vestale, o baiadera, e Gamzatti, la figlia del Rajah, si contendono l’amore del guerriero Solor. Costui all’inizio sfida la sorte per giurare eterno amore alla baiadera davanti al tempio induista in cui lei vive con colleghe e bramini. Poi tradisce la promessa quando il Rajah gli offre in sposa la bellissima figlia. Nikiya muore durante i festeggiamenti per il fidanzamento di Gamzatti e Solor per la vendetta della rivale, del Rajah e del Grande Bramino che, però, innamorato della sua baiadera, le offre di salvarla dalla morte provocata dal morso di un serpentello velenoso. Invano.
Chi ha ucciso la baiadera, secondo Benjamin Pech, è l’egotismo di Solor: il guerriero ha scelto il potere al posto dell’amore, e ne pagherà le conseguenze. Nel terzo atto – mentre è avvolto dall’oppio per il rimorso – si troverà a tu per tu con Gamzatti, donna che non ama.
Incantevole la coreografia del Regno delle Ombre, nel terzo atto conosciuto e diffuso in Occidente da Rudolf Nureyev e Natal’ja Makarova assai prima dell’intero balletto. Coadiuvato da Isabel Guérin, già deliziosa étoile parigina proprio al top negli anni della direzione artistica dell’Opéra affidata a Nureyev, il più giovane Pech ha ricreato un terzo atto fedele all’eredità del divo, ma senza immergerla in un antro boschivo oscuro, bensì in una dolce fioritura di papaveri bianco-azzurri: i fiori dell’oppio. Per il resto il balletto procede secondo il diktat di Nureyev che, come noto, fece della Bayadère il suo ultimo balletto all’Opéra di Parigi prima della prematura scomparsa, nel 1993.

Ventiquattro ombre discendono, qui a Roma, da un declivio altissimo, come sempre una alla volta. Ripetono lo stesso passo, un arabesque, sino all’arrivo sul palco di tutte. Ha così inizio una danza che sospende il tempo e lo annichilisce con un’eleganza sostenuta per le interpreti da concentrazione e tecnica. I due amanti perduti si ritrovano da un capo all’altro di un velo in uno dei passi a due più vibranti. Non ci sono effusioni sentimentali, richieste di perdono o esplicita riappacificazione: l’atto è di un nitido formalismo. Con un pioneristico balzo nel futuro anticipa, per via di quel passo unico continuamente ripetuto, il Minimalismo della seconda metà del XX secolo.
Temo che George Balanchine avesse ragione quando asseriva che la tradizione è più forte della sua negazione, o meglio assorbe il nuovo con estrema rapidità. L’amore per l’Oriente attinto a piene mani da Petipa per creare, nel 1877, la sua Bayadère persiste in molte pièce esotiche dei Ballets Russes di Sergej Djagilev. Mentre l’ipnotica perfezione del Regno delle Ombre riecheggia nella purezza dei balletti astratti dello stesso Balanchine. Questo coreografo geniale additava Patipa come il maggiore creatore di danza: guai a copiare i suoi passi, fortuna nel resuscitare il suo spirito creativo.