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Copland Dance Episodes di Justin Peck: un americano inno alla gioia

Il NYCBallet continua a innovare il balletto nella linea iniziata da Balanchine

Luciana CaprettibyLuciana Capretti
Copland Dance Episodes di Justin Peck: un americano inno alla gioia

Mira Nadon e il NYCB in Copland Dance Episodes, di Justin Peck Photo: Erin Baiano

Time: 3 mins read

Sulla scena una composizione scultorea, corpi immobili, avvolti in garze trasparenti come statue protette dal tempo in un museo chiuso, o bozzoli appesi leggermente alla terra. Sono in controluce, pronti a liberarsi, vivere alla prima nota musicale. La musica è trionfante, americana. Loro escono in un battito e quando rientrano sono colorati, leggeri, nei fantastici costumi di Ellen Warren che riprendono le infinite tonalità del sipario. Il sipario, un’opera di Jeffrey Gibson, artista Choctaw Cherokee che nel comporlo ha attinto dai disegni triangolari e i colori della sua tradizione e ai lati ha scritto il suo mantra: The only way out is through, L’unico modo per uscirne è arrivare fino in fondo. La musica, un collage di quattro delle celebri composizioni di Aaron Copland, legate in un unico balletto di 76 minuti senza intervallo: “Fanfare for the Common Man”, “Four Dance Episodes From Rodeo” (del 1942), “Appalachian Spring” (1944) e “Billy the Kid” (1938).

La coreografia, immaginifica, cerebrale, complessa, composizioni di passi che non si ripetono, passi a due, a tre, a quattro, a trenta, in cui le coppie sono spesso dello stesso sesso, gli uomini vengono sollevati come fossero donne, danno le spalle al pubblico come in una danza senza spettatori, intima. La creazione di Justin Peck, per il New York City Ballet, è certamente lunga, alla fine può apparire inconcludente, come scrivono alcuni critici, perché non segue una trama, è una creazione astratta, ma è un esperimento di balletto che rispecchia i nostri tempi affannosi, un mix di generi, razze, culture, ed è assolutamente originale.

Copland Dance Episodes, di Justin Peck New York City Ballet Photo: Erin Baiano

Justin Peck è un 35enne che ha iniziato ballando il tap, poi ha studiato balletto ed è arrivato alla coreografia. E’ diventato coreografo del NycBallet nel 2014 ma già il NYT lo aveva definito il terzo fra i coreografi più importanti di questo secolo insieme a Wheeldon e Ratmansky. Ha vinto un Tony Award per le coreografie a Broadway, ha curato le danze di “West Side Story“. Suona il pianoforte fin da bambino e questo gli dà una acuta sensibilità nei confronti della musica. E la voglia di valorizzare con la danza spartiti molto americani. “Una delle cose che ho notato quando ho iniziato a lavorare per il New York City Ballet – ha spiegato al NYT – è che non c’erano balletti di Copland e mi è sembrato così strano per un compositore che è una istituzione di questo paese.”

Dicono che Copland abbia inventato la musica dell’epopea del West, che da lui abbiano attinto poi altri compositori: una ironia per un musicista figlio di immigrati lituani, ebreo, gay, cresciuto a Brooklyn e vissuto nell’Upper West Side che nel West non ha mai messo piede. Copland compose per la danza: creò “Rodeo” per Agnes de Mille, “Billy the Kid” su richiesta di Lincoln Kirstein per Ballet Caravan, precursore del NYCBallet, “Appalachian Spring,” per Martha Graham. Justin Peck ha iniziato a coreografarlo nel 2015, trasformando “Rodeo” in un divertimento astratto. Quando ha iniziato a lavorare sui “Copland Dance Episodes” ha mappato la coreografia come una serie di composizioni astratte eppure reminiscenti della grande pittura rinascimentale. Quando i tre ballerini concludono “Rodeo” con un dito puntato verso il cielo e sono poi raggiunti da tre ballerine che toccano quel dito con un passaggio di energia e vita che dà inizio ad “Appalachian Spring”, Peck ha pensato al film “E.T.” di Spielberg, e intitolato l’episodio “Phone Home”, io ho pensato alla creazione nella Cappella Sistina e paragonato la massa dei corpi in intreccio continuo al Giudizio Universale di Michelangelo. “Copland Dance Episodes” racconta i nostri tempi e il paragone per quanto azzardato, è relativo al secolo e al genere artistico.

Mira Nadon and Taylor Stanley in Copland Dance Episodes, di Justin Peck New York City Ballet Photo: Erin Baiano

La composizione di Peck è senza storia, ma studiata, ricercata, sofisticata, un esperimento continuo alla ricerca del passo nuovo, della linea nuova dei corpi nello spazio. All’inizio 15 uomini danzano con una donna, la fantastica Mira Nadon, poi la proporzione si inverte e ci sono 15 donne sulle punte in scena, le combinazioni sono tutte le possibili per un balletto immaginifico che consigliamo di vedere, che esalta la realtà americana oggi: soli, uniti, omosex, bisex, razze miste, altezze, colori come nelle strade delle metropoli tutti i giorni.

 

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Luciana Capretti

Luciana Capretti

Nata a Tripoli, Libia, ha studiato a Roma, lavorato più di 20 anni a New York come corrispondente per varie testate giornalistiche e per la Rai, e a Roma nella redazione esteri del Tg2. Ha scritto i romanzi Ghibli (Rizzoli) e Tevere (Marsilio), il saggio La Jihad delle donne (Salerno) e il memoir Tredicesima Strada (Galaad).

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