Cinema, arte e questioni sociali diventano tutt’uno all’ombra dei grattacieli di Manhattan. Un trittico di elementi unito da una matrice comune: la sensibilità, in ogni sua temperatura di valore. Dopo sessant’anni di recitazione e attivismo, il premio Oscar Jane Fonda svela infatti un altro lato di sé: quello di collezionista. Lo fa affidando parte della sua raccolta di opere d’arte a Christie’s, che si occuperà di aggiudicarle al miglior offerente nella vendita in programma mercoledì 18 gennaio al Rockefeller Center. Quattordici opere che compongono Things Grow in the United States: Works from the Collection of Jane Fonda, asta a sua volta contenuta nella più ampia Outsider and Vernacular Art.
New York, sua città natale, è quindi la scenografia dell’ultima performance dell’attrice, ben felice in questo caso di lasciare la scena agli artisti che per trent’anni ha collezionato con intelligenza e passione. il suo è stato un collezionismo colto, capace di unire visione, attivismo e mecenatismo. Agli inizi degli anni ’90 – mentre lavorava a Stanley & Iris di Martin Ritt accanto a Robert De Niro – Jane Fonda si è avvicinata a una declinazione socio-politica dell’arte visiva. Il riferimento è alla poetica sviluppata dai Black artists provenienti dal sud degli Stati Uniti, in grado di unire alla ricerca tecnica e materica una potente denuncia della fragile condizione economica e sociale. Se anche oggi la questione razziale è lontana da essere risolta, specialmente negli stati del Southeast, il secolo scorso ha riservato decenni durissimi per la comunità afroamericana. Tormenti trasposti su tela da artisti come Thornton Dial (1928-2016), Lonnie Holley (1950) e Joe Minter (1943). Jane Fonda vide i loro lavori per la prima volta proprio nel 1990. L’occasione fu un viaggio ad Atlanta, intrapreso dall’attrice per far visita allo storico dell’arte e collezionista Bill Arnett. Alle pareti di casa sua le opere degli autori sopracitati. Fonda, che aveva iniziato a collezionare da poco dipinti en plein air, delicati paesaggi dal tocco femminile, rimase sconvolta e sedotta dalla forza esuberante di queste opere cariche di dolore e protesta.

“Non riuscivo a credere al dinamismo, all’energia, al coraggio, alla crudezza di queste opere” ha detto. Fu una rivelazione che comportò una rivoluzione nel suo percorso collezionistico: “Alcuni lavori li ho comprati subito”. Per non smettere più. Da quel momento in poi approfondì la conoscenza degli artisti che Arnett sosteneva, visitando i loro studi e le mostre a cui prendevano parte.
In particolare, ad attrarla, fu il lavoro di Thornton Dial. Artista autodidatta, Dial era il leader di una nuova declinazione del ready-made, impregnato delle questioni sociali che attanagliavano l’America del dopoguerra. Lui, come anche Holley e Minter, assemblava oggetti di scarto, trovati ai margini della strada o nella spazzatura, elementi non più funzionali, e ridava loro nuova e artistica vita. Spesso si trattava di lamiere e pezzi di ferro e metallo, che Thornton ben conosceva grazie al suo passato da operaio siderurgico. “Ha realizzato vagoni ferroviari per passeggeri bianchi sui quali lui non avrebbe mai potuto viaggiare”, racconta Fonda. Ed ecco che i suoi vibranti e dinamici assemblaggi diventavano un’evocativa metafora della sua storia, dei soprusi, delle discriminazioni. Testimonianza diretta, evocativa, di ciò che ha vissuto. Lui sfruttato e gettato come il metallo che lavorava, lui salvato e riabilitato da quello stesso metallo, sapientemente trasportato in una dimensione artistica. E incastonata tra le sue inflessibili pieghe una veemente critica al razzismo, al sessismo e alla violenza che imperversava nel Sud. Nel vorticare sferragliante delle sue opere è racchiuso lo stridente paradosso di un’America bianca e speranzosa, che coltiva il suo sogno sulle spalle di una minoranza sfruttata. Tanto che quando Fonda iniziò a collezionarlo, Thornton era considerato poco più che un outsider dal mondo dell’arte. Ora le sue opere sono esposte al Metropolitan accanto a quelle di Robert Rauschenberg e Frank Stella. E soprattutto passano all’asta per cifre a cinque zeri. Un bel salto. Per esempio, due suoi Untitled (del 1991 e del 1993) – un delizioso annodarsi di fili, guanti e panni su tela – sono proposti da Christie’s alla stima di 50-100 mila dollari. Oppure una lastra di metallo dipinta e applicata su legno – The Hills and Mountains of Vietnam, 1987 – è valutata 30-50 mila dollari. Tra le altre opere di Dial un dipinto a olio su legno del 1988 circa, Everybody’s Got a Right to the Tree of Life, raffigurante quattro alberi e valutato 30-50 mila euro; un’interpretazione di Uncle Sam stimata 20-40 mila dollari; e diverse opere più piccole su carta raffiguranti figure femminili (3-5 mila dollari la stima). Nel catalogo non mancano svolte e giravolte figurative. Si veda la pregevole tavola decorata con smalto, moquette, nastro e filo intitolata Eve and Adam, stimata 3-5 mila dollari. A realizzarla sempre Dial; ma non Thornton, bensì Arthur, scomparso appena due anni fa (1930-2021). I Dial erano infatti una famiglia di creativi, di cui facevano parte anche il fratello di Thornton, Arthur, e il figlio Thornton Jr. Fonda li sostenne tutti, acquistando le loro opere e promuovendole in tutto il Paese. Di Thornton Jr è all’incanto Untitled (Horse/Lion Bench in Red and White): una panchina rosso fiammante che ricorda, appunto, un cavallo o un leone. La valutazione è di 2-4 mila dollari.

La vendita, per Jane Fonda, non è un punto di arrivo, ma un altro passo in un percorso più ampio: “C’è ancora molto da fare. Vogliamo che questi artisti siano considerati come figure di spicco del 20° secolo”. Un impegno che parte da lontano e che non si pone limiti. Tanto che l’attrice è membro della Souls Grown Deep Foundation di Atlanta, Fondazione si dedica al sostegno del lavoro degli artisti afroamericani provenienti dal Southeast, oltre a sostenere le loro comunità promuovendone l’emancipazione economica, la giustizia razziale e sociale e il diritto all’educazione. “Non possiamo più permettere che il razzismo e la discriminazione impediscano a queste opere di far parte della tradizione artistica americana, come purtroppo è stato per troppo tempo”, chiosa Fonda, augurandosi che anche i collezionisti, in sala, siano della sua stessa opinione.