“Gli americani sono pragmatici, incasellano tutto, ma io penso che ci sia spazio per uscire da queste caselle, per romperle, seminando il dubbio.” Laura Mattioli è piena di dubbi, e di certezze. Che l’arte moderna italiana sia misconosciuta in America e sia necessaria un’opera di sensibilizzazione per restituirle la giusta collocazione nel panorama artistico internazionale e che i giovani studiosi abbiano bisogno di scambi culturali sono le prime e le più importanti. Quelle che l’hanno spinta a creare CIMA, il Center for Italian Modern Art nel 2013, al 421 di Broome Street, a sostenerlo e guidarlo anche negli anni difficili della pandemia, per farlo diventare un cardine del mondo artistico newyorkese.
“Sono venuta spesso negli Stati Uniti e mi sono resa conto che l’arte italiana non veniva mostrata, né conosciuta come era giusto. Ho sentito quindi il desiderio di farla riconoscere come realtà autonoma rispetto all’arte francese da cui in America si fa spesso derivare.” Quello che è successo, ci spiega, è che gli artisti francesi fuggiti da Hitler hanno portato la loro arte nel continente nuovo offuscando il resto. “Hitler’s gift to America” lo chiamarono gli americani che accolsero gli artisti in fuga a braccia aperte, da Chagall a Marcel Duchamp a Fernand Léger e da loro si apprestarono a imparare. Pierre Matisse, intanto, il figlio di Henri Matisse, aveva creato una galleria nel Flatiron Building per esporre l’avanguardia francese: Braque, Derain, Dufy, Picasso, naturalmente Henri Matisse, e Joan Mirò e Marc Chagall. Tutto il mondo dell’arte francese ebbe una visibilità che oscurò il resto. “La scarsa conoscenza della nostra arte è tale che ancora oggi il New York Times scrive che Lucio Fontana è italoargentino (Lucio Fontana, a Sculptor but So Perverse – In terra cotta, clay, metal and concrete, the Argentine Italian artist overhauled the history of European sculpture. Dec. 22, 2022). Il quarto stato di Pellizza da Volpedo non lo conoscevano proprio e del resto poco conoscono dell’arte italiana fra il 1880 e la prima guerra mondiale cui abbiamo dedicato la mostra Staging Injustice.”

Laura Mattioli è figlia di un collezionista, ci dice, in realtà Gianni Mattioli (1903-1977) fu uno dei più grandi collezionisti del ventesimo secolo, di arte futurista in particolare che iniziò ad acquisire nel 1949. La sua collezione, divenuta nel 1973 patrimonio indivisibile, è stata esposta dal 1997 al 2015 al Guggenheim di Venezia, poi a Madrid, New York, Pietroburgo e Mosca, ora è al Novecento di Milano. Quella di Laura Mattioli è stata quindi una vita nell’arte, perché cresciuta all’ombra della passione paterna, ha poi sposato un restauratore, Giovanni Rossi, ed è divenuta a sua volta una storica e docente di arte.
Ha curato al Guggenheim la mostra su Boccioni nel 2004, e molto altro ancora. Ma lei, con un sorriso leggero, minimizza, alla domanda se è contenta di essere stata destinata per nascita ad una vita nell’arte, risponde: “Ho avuto una vita difficile – senza entrare in dettagli – ma in fondo tutti hanno una vita difficile.”
Laura Mattioli, però la sua vita l’ha presa in mano e condotta con scelte coraggiose, generose, idealiste. Il New York Times l’ha paragonata a Peggy Guggenheim perché, come la mecenate americana, anche lei è una munifica sponsor dell’arte e sostenitrice dei giovani (She’s the Peggy Guggenheim of SoHo – Steward of a collection of 20th century art, Laura Mattioli made a future for the Futurists at the Center for Italian Modern Art in Manhattan By Joseph Giovannini April 20, 2022).
“Diamo borse di studio a giovani studiosi italiani, americani, non importa la nazionalità purché siano qualificati, per venire a studiare 6 mesi qui, per seguire la mostra e approfondirne i temi e i contenuti. C’è gente che si prodiga per dare da mangiare ai senegalesi, per dire, io do da mangiare a questi giovani nel senso che li aiuto a spiccare il volo a non finire a fare i camerieri perché non trovano gli sbocchi professionali adeguati. Non so fare altro, faccio questo.
Mi sono resa conto che le metodologie di studio, italiana e americana, sono opposte e mi sono prefissa di dare a questi studenti la possibilità di un confronto con una metodologia diversa. Abbiamo molti borsisti, per esempio, che vengono dalla Scuola Normale di Pisa che sono preparatissimi, ma molto teorici, filologici, gli mancano i riferimenti più ampi. Qui al contrario gli studenti hanno in mente panorami ampi su cui però magari sbagliano le collocazioni cronologiche e perdono di vista l’oggetto d’arte. I nostri 5 borsisti l’anno, fanno le visite guidate e si confrontano quotidianamente con le opere e dopo 6 mesi la loro percezione degli oggetti è diversa e profonda.”

Il Cima è nato come museo speciale, dove le mostre non sono il risultato di studi, come di solito avviene, ma l’origine, ci spiega. “Siamo parte di ARIAH, l’associazione degli istituti che fanno ricerca sulla storia dell’arte, ne fanno parte il Metropolitan come il Getty e così via, pubblichiamo una rivista online, Italian Modern Art che è stata richiesta dalla Library of Congress, il nostro comitato scientifico è formato per metà da italiani e per metà da americani. All’inizio facevamo una mostra l’anno, ma ora i musei italiani prestano le opere solo per 6 mesi quindi ne facciamo due.”

La mostra su Bruno Munari (1907-1998) The Child Within che chiuderà a metà gennaio ha avuto grande successo. “L’abbiamo centrata sui suoi libri per bambini perché l’educazione ha molta importanza specialmente ora e perché volevamo qualcosa di apparentemente leggero per un momento sociale e politico così complesso.” Curata da Steven Guarnaccia, docente alla Parsons School of Design, raccoglie circa 130 libri, oggetti e opere provenienti da archivi, musei e collezioni private.
La mostra inizia in cucina, “perché questa è una casa – ci spiega Laura Mattioli – vogliamo che la gente non si senta in un museo, tutte le case hanno una cucina e i nostri visitatori iniziano il loro giro con un caffè”. Qui troviamo le foto di Munari, nel corridoio i libri russi commissionati da Lenin per il mondo nuovo che intendeva costruire, libri la cui grafica ha influenzato Munari agli inizi del suo lavoro a Milano nel 1927. Di fronte una serie di xerocopie create nel ‘68, quando l’artista venne invitato alla Biennale. Le sue copie in movimento, hanno un effetto futurista, ed esprimono la convinzione che tutti possano farle ed essere artisti a loro modo: una idea democratica dell’arte.

Nel salone troviamo i libri per bambini cui Munari si dedica dopo la guerra. Sono esperimenti di comunicazione attraverso forme, colori e materiali, presenze e assenze, buchi, trasparenze. Munari crea i libri illegibili decifrabili solo dall’intelligenza intuitiva dei bambini, il dizionario dei gesti, illustra le favole di Gianni Rodari.

Esposte le sculture di carta influenzate dagli origami giapponesi, le Macchine inutili, forme sospese nello spazio grazie a fili invisibili, create negli anni ’30 nello stesso periodo in cui Calder fa i suoi celebri mobiles, una fontana a ruota di plastica colorata del 1958

In un’altra stanza sono proiettate sul muro le sue Proiezioni dirette create a partire dagli anni ’50 con materiali e tecniche diverse su vetrini inseriti nei telai delle diapositive. E poi il Tetracono del 1965 dove quattro coni in verde e rosso, situati all’interno di un cubo, si possono girare creando composizioni coloriche diverse.
Infine la ricostruzione di Abitacolo, una cameretta per bambini modulare che Munari disegnò nel 1971 per creare uno spazio che ogni bambino potesse comporre da sé. Accanto la lampada Falkland 165 Floor del 1964, prodotta da Artemide realizzata con una calza da donna. E un Fossile del 2000, pezzi metallici scardinati messi lì immaginando che in un lontano futuro i nostri pronipoti troveranno qualche componente elettronico sottoterra e si chiederanno: cos’è?
Bruno Munari: The Child Within è stata allestita in collaborazione con Corraini Edizioni, il sostegno dell’Ambasciata d’Italia a Washington e l’Istituto Italiano di Cultura di New York e grazie a Sonus faber.
Discussion about this post