Per tradizione e abitudine, noi italiani tendiamo a colpevolizzarci alimentando quella narrazione macchiettistica di cui ci lamentiamo, ma che non facciamo nulla per contrastare: parliamo ad alta voce, gesticoliamo, talvolta siamo invadenti, al limite della cafonaggine per gli standard stranieri (“Una comitiva di turisti italiani si riconosce a un chilometro di distanza”, mi disse con un filo di ironia un insegnante di Saint Albans, Regno Unito). Eppure, come testimonia l’ultimo libro di Massimo Cutò, Fortissimi. Uomini e donne sul ring della vita, Ianieri Edizioni, il nostro Paese, così vittimista e con così poca fiducia nel futuro, ha sfornato nel tempo personaggi talentuosi, animati dalla passione e dal desiderio di riscatto, celebri nel mondo intero.
Pescarese di nascita e bolognese di adozione, prima giornalista al Quotidiano Nazionale ed oggi collezionista di chiara fama (ad interessarlo è soprattutto il materiale storico sull’immigrazione italiana, di cui conserva numerosi manifesti), Cutò narra con precisione chirurgica la vita di cinque pugili, quattro uomini e una donna, tutti abruzzesi come l’autore del libro, andati all’estero in cerca di fortuna.
Il primo a finire sotto la lente di ingrandimento è Michele Leoni, soprannominato “il Cattivo”, come Lee Van Cleef nel quasi omonimo film di Sergio Leone, nato nel 1909 a Pettorano sul Gizio, nell’aquilano. Fin da bambino, Michele dà sfoggio delle proprie capacità (“Pochi dubbi che Michele Leone fosse un talento precoce in quella ruvida disciplina, a metà fra la tradizione classica greco-romana e le botte di strada”).
Il racconto prosegue con Rocco Francis Marchegiano, un italoamericano su cui nessuno avrebbe scommesso un dollaro, anzi, un centesimo: pesava solo 84 chili e non arrivava al metro e ottanta. Eppure, riuscì ad ottenere 46 vittorie per ko su 49 incontri (“La sua boxe ha il marchio del dialetto abruzzese che parla con gli amici stretti: tanta sostanza e niente apparenza. È tarchiato, aggressivo, feroce, cocciuto, coraggioso oltre ogni limite. Lo spettacolo che offre è una stoica resistenza al dolore, unita alle doti di incassatore e alla capacità di soffrire senza mai pensare di arrendersi”).
E ancora ecco Bruno Leopoldo Francesco Sammartino, vittima di quei paradossi che solo la vita può offrire: una star negli Stati Uniti, dove è emigrato all’età di 15 anni insieme alla famiglia, ma “straniero in patria” per dirla con Indro Montanelli (“Come risarcimento Pizzoferrato, nel 2017, gli ha dedicato una statua più alta della sua statura nei giardini comunali”). All’inaugurazione del monumento, Sammartino — malato di cuore e reduce da undici operazioni — pronuncia un discorso commovente e fortemente identitario: “I dottori non volevano che venissi, ma eccomi. Scusatemi se parlo solo inglese e pizzoferratese. Il mio cuore è qui, ovunque combattessi rivendicavo le mie radici. Vi prometto che tornerò appena starò meglio”. Una lezione per chi, in Italia come in altri paesi, disprezza apertamente la storia patria, troppo spesso oggetto di censure e oscuramenti. Si pensi a ciò che sta accadendo anche negli Stati Uniti, dove quadri vengono imbrattati e statue abbattute.
Fra i meravigliosi ritratti tracciati da Massimo Cutò figura anche quello — stavolta sotto forma di intervista — di Rocco Mattioli, detto Rocky, nato a Ripa Teatina nel 1953. Dopo essere emigrato in Australia da bambino, Rocky torna in Italia dove diventa campione del mondo dei pesi medi junior nel 1977. Una vittoria pagata al prezzo di veri e propri pestaggi che hanno segnato l’intera giovinezza di Mattioli, modellandone non solo la forza fisica, ma anche la volontà (“Ci allenavamo con gente adulta, tanto più grossa di noi, menavano senza pietà. In Australia funziona così. È stata questa la mia formazione”).
Infine, Monica Passeri, nata a Roma nel 1992 ed entrata a soli 24 anni nella World Wrestling Entertainment: “Bionda, potente, fisico scolpito, coraggiosa. Miss Monica — il suo nome di battaglia — è una pin-up che usa cervello e muscoli. Tutto quel che ha ottenuto se l’è guadagnato con la tenacia. E mettendoci il cuore”.
Quello di Cutò è un racconto documentato, ricco di riferimenti storici e bibliografici (per rendersene conto basta gettare uno sguardo sull’ultima pagina, in cui compare fra le citazioni anche il regolamento per la prevenzione e la cura della pellagra, stilato dal ministero dell’Interno italiano nel lontano 1903). Tuttavia, la prosa efficace e l’indiscutibile talento narrativo dell’autore rendono la lettura scorrevole, accessibile a tutti, anche a chi non ha mai sentito nominare i personaggi narrati, ai quali il lettore non farà a meno di affezionarsi.
Oltre che essere un monumento all’American Dream, che all’alba del secolo scorso spinse centinaia di migliaia di nostri connazionali ad attraversare l’oceano con pochi soldi e molte speranze, questo libro impartisce anche una lezione importante ai giovani di oggi: la società del benessere in cui siamo cresciuti — così diversa dall’Italietta che più di un secolo fa combatteva con pellagra, malaria e tubercolosi — soffoca il talento e la creatività, inibisce l’ambizione di affermarsi, di migliorare la propria condizione di vita. Da che mondo e mondo, il desiderio nasce per colmare una mancanza. E che senso ha desiderare qualcosa se si ha già tutto? Non siamo più costretti a confrontarci con la Grande Guerra o con la Spagnola che hanno mietuto rispettivamente 600 e 275 mila vittime. Ma forse dovremmo recuperare un briciolo di quel sano disagio che — insieme allo spirito combattivo — traghettò dei perfetti sconosciuti verso il successo.