Un film per durata e trama, un documentario per la ricchezza di testimonianze e documentazione, “Salvatore: shoemaker of dreams” in italiano “Salvatore il calzolaio dei sogni” di Luca Guadagnino, racconta la storia di un uomo e di un’epoca, di una famiglia e di un impero. Ferragamo, il Salvatore in questione, è stato intraprendente, coraggioso e geniale e dal niente, con il suo cervello e le sue mani, come dice in un momento del film, ha costruito una casa di moda ed un brand globale.
120 minuti scritti dalla giornalista di moda Dana Thomas, il film è stato un’avventura. 3 anni di ricerche e riprese, poi un montaggio che interseca il vasto materiale di archivio, le interviste a Martin Scorsese, i disegnatori di scarpe Christian Louboutin e Manolo Blahnik, i vari membri della grande famiglia Ferragamo, il docufilm si avvale anche della voce registrata di Ferragamo stesso in interviste d’epoca, e della narrazione di frasi dal libro autobiografico “Shoemaker of dreams” del 1957 ad opera di Michael Stuhlbarg.
Tutto è cominciato in un paesino vicino Napoli, Bonito, poche case, molta povertà, Salvatore, undicesimo di quattordici figli, passa il tempo da un ciabattino e una notte cuce le scarpe per le sorelle che devono fare la cresima. Poi va a Napoli a lavorare: ha 11 anni. Torna e apre una bottega, ma non gli basta, torna a Napoli e parte per le Americhe: ha 16 anni. E lì la storia assume i contorni dell’epica, perché New York e Boston non gli bastano, attraversa tutto il continente e arriva a Santa Barbara. “Più in là non poteva andare” dice Scorsese ridendo, si deve fermare per forza, proprio nella città dove stava nascendo il cinema americano. Iniziò a fare scarpe ad attori e comparse, Cecil B.DeMille, per il quale fece 12mila sandali per “I dieci Comandamenti” del 1923, disse “l’ovest sarebbe stato conquistato prima se avessero avuto stivali come i suoi”. Poi fece modelli per gli astri nascenti Gloria Swanson, Joan Crawford, Mary Pickford, Lillian Gish, Douglas Fairbanks, Rodolfo Valentino con cui la sera mangiava spaghetti e chiacchierava in italiano. Si mise a studiare l’anatomia del piede all’università, aprì un negozio con i fratelli. Tutto andava bene, finché un incidente di macchina, in cui un fratello muore e lui rimane gravemente ferito, non gli fanno pensare che è ora di tornare in Italia e unire le nuove tecnologie americane al grande artigianato italiano.
Arriva a Firenze nel ‘27, ma la Grande Depressione del ‘29 fa fallire i suoi piani e nel ‘33 è costretto a dichiarare bancarotta. E’ allora che ricorre nuovamente al suo ingegno e crea scarpe magnifiche con materiali poverissimi. Le famose zeppe di sughero, le tomaie di raffia e di stoffa, gli affari decollano di nuovo. “Avevo tutto – dice la voce narrante – mi mancava però l’amore della famiglia”. E’ così che entra in scena Wanda: la incontra nel suo paesino, Bonito, lei è la figlia del sindaco, ha 18 anni, si sposano, è un amore superlativo.
Ho conosciuto Wanda Ferragamo a New York, quando il business americano era già in mano al figlio Massimo ma lei era ancora la matriarca indiscussa della grande famiglia. Donna dolcissima ancora talmente innamorata del marito che parlandone le salirono le lacrime. Chiesi all’operatore che faceva le riprese di fermarsi, di rispettare quel suo dolore. Ferragamo era morto molti anni prima, nel 1960 a soli 62 anni, lei ne aveva 39, non aveva mai lavorato prima ma prese in mano la famiglia, 6 figli, e il brand. Il resto è storia dei libri di moda.
Il film si apre e si chiude con le sequenze della creazione di meravigliose scarpe: è quello che ci ha lasciato oltre all’insegnamento di una grande intraprendenza genialità e coraggio.