Vedersi riconosciuta la palma di avanguardista è un pregio per pochissimi intellettuali. E non c’è dubbio che tra quei pochi ci sia Pier Paolo Pasolini, uno tra i più iconici maîtres à penser italiani del Novecento di cui in questi giorni si celebra il centenario della nascita, avvenuta il 5 marzo 1922 a Bologna.
Pasolini fu certo un avanguardista, ma assai sui generis: fu alfiere infatti di un’avanguardia tutt’altro che avveniristica, dove il passato povero ma spontaneo dell’Italia sottoproletaria assumeva i contorni di una semi-mitica età dell’oro (o “età del pane”, come preferiva definirla) in contrasto con il “nuovo fascismo” della società dei consumi distopicamente emersa nel dopoguerra. Un nuovo fascismo che, attraverso la televisione, avrebbe “lacerata, violata, bruttata per sempre” l’anima del popolo italiano.
E se nel “vecchio” fascismo i liberticidi indossavano camicie nere, secondo Pasolini quelli del “nuovo” fascismo indossavano jeans alla moda e invitavano a comprare ogni tipo di bene superfluo.

Al centro del “nuovo fascismo”, secondo Pasolini, c’era la classe dirigente democristiana – accusata di aver ormai abbandonato la propria matrice clericale in favore del culto ateo dello “sviluppo” e del consumo.
A dire il vero, non era l’unica accusa rivolta dal poeta alla DC. “Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere trascinati sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità sterminata di reati”, scriveva nelle sue Lettere luterane (edite postume da Garzanti). Non solo generiche accuse di “indegnità”, “disprezzo per i cittadini” e “responsabilità della degradazione antropologica degli italiani”, ma anche autentico materiale da procura come “manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, collaborazione con la Cia, uso illegale di enti come il Sid (i servizi segreti, NdA), responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di colpirne gli esecutori)“.
Che Pasolini potesse aver scoperto qualcosa di grosso, e che perciò qualcuno ne auspicasse la scomparsa, è la tesi della giornalista Simona Zecchi, già firma de La Voce di New York. Da anni Zecchi indaga sulle circostanze che portarono al brutale assassinio di Pasolini nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia, ufficialmente per mano del giovane gigolò Pino Pelosi, ma con una fittissima coltre di misteri su mandanti ed esecutori reali.
Autrice nel 2015 del saggio Pasolini, massacro di un poeta (Ponte alle Grazie, pp. 320, € 15,20), nel 2020 Zecchi ha dato alle stampe un altro lavoro d’inchiesta che costituisce la prosecuzione naturale della sua prima opera: L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini (Ponte alle Grazie, pp. 444, € 17,10). In occasione del centenario della nascita di Pasolini, oltreché dell’imminente uscita della traduzione spagnola del suo primo saggio (Pasolini, masacre de un poeta) – disponibile a partire da maggio in Spagna, Argentina e Messico e nella comunità ispanofona di New York – le abbiamo fatto alcune domande.
“Inchiesta spezzata“: così hai intitolato il tuo ultimo libro sul delitto Pasolini. A cosa ti riferisci?
Ci tengo a fare una precisazione terminologica: quella di Pasolini non è stata una semplice “morte”. Tutti prima o poi siamo destinati a morire. Pasolini è stato ucciso, barbaramente assassinato. Quanto alla domanda: “inchiesta spezzata” si riferisce in primis al lavoro che Pasolini stava svolgendo e avrebbe potuto continuare a svolgere, se glielo avessero lasciato fare. Ma “inchiesta spezzata” si riferisce anche al proseguimento di quel lavoro d’inchiesta da parte mia, quindi un doppio lavoro d’inchiesta. Nel mio primo libro – Pasolini, massacro di un poeta – ho indagato sul chi e sul come, e verso la fine di quel lavoro fatto di ricerca dei fatti ancora ignoti tra documenti e interviste, ho anche pubblicato per la prima volta della documentazione che poteva portare a un’altra pista, la stessa che poi ho sviluppata con ulteriori nuovi documenti ne L’Inchiesta spezzata: è qui che il movente, il perché giornalistico si è fatto strada.
Cosa ha scoperto riguardo al movente?
Poco prima di morire, Pasolini aveva raccolto documentazione sufficiente a provocare un terremoto politico sulla DC, riguardante i finanziamenti democristiani ai bombaroli della strategia della tensione. Uno scandalo che avrebbe avuto un’amplificazione sensazionale se pubblicato con l’autorevole voce di Pasolini, magari sulle colonne del Corriere della Sera, con cui collaborava. Non è un caso che, pochi mesi prima di venire ucciso nel 1975, Pasolini parlasse di “stragi” e “processo ai gerarchi della DC”, proprio mentre a Catanzaro si dibatteva il processo sulla strage di Piazza Fontana. Chiaramente quest’ultima coincidenza, presa singolarmente, è troppo poco. Ma ho individuato e fatto emergere copiosa documentazione che nei fatti comprova un accerchiamento nei confronti di Pasolini e del suo dossier, frutto del carteggio epistolare avvenuto fra Pasolini e il terrorista Giovanni Ventura, il fascista di Ordine Nuovo coinvolto nell’attentato milanese del 1969.

Attorno a intellettuali iconici come Pasolini spesso però, affianco ai fatti, si accoda anche la mitologia. Ad esempio il famoso “appunto 21” mancante di Petrolio, il suo ultimo romanzo sull’ENI…
Ampia parte della pubblicistica ha dedicato pagine e pagine al presunto filo rosso tra la morte di Pasolini (1975), il famigerato capitolo mancante di Petrolio (a oggi inesistente e quasi sicuramente mai scritto, come mostra anche l’ultima edizione di Petrolio pubblicata da Garzanti questa settimana, fatto che avevo già chiarito in un capitolo intero in Massacro di un Poeta) e la misteriosa morte di Enrico Mattei (1962). Per molti starebbe tutto in questo trinomio il movente dell’assassinio, ma la realtà è che tutti quei argomenti sono costruiti sul terreno fragile delle deduzioni, con pochissimi elementi concreti e una certa dose di complottismo. Io ho sempre sostenuto che la realtà sia da ricercarsi altrove, che l’assassinio di Pasolini abbia a che fare col suo lavoro d’indagine sulle stragi, e a tal proposito ho trovato dopo una attenta e lunga ricerca documenti, prove, interviste. Accanirsi sulla pista di Petrolio significa allontanarsi dalla realtà, e far finta che questa documentazione non esista. Ma non si fa un gran favore alla verità se la si scambia per insinuazione…
La prima (e sinora unica) condanna definitiva per l’omicidio di Ostia se l’è presa Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” all’epoca 17enne che era assieme a Pasolini la sera del 1° novembre. Che ne pensa della versione giudiziaria?
Chiaramente che sia lacunosa, ma qui è importante ribaltare l’intera narrazione: dal punto di vista giornalistico-giudiziario, non si può dire che l’unica condanna comminata a Pelosi sia l’ultima verità giudiziaria, non più. Omicidi come quello di Pasolini in Italia sono praticamente esenti da prescrizione, e rimangono perciò sempre perseguibili. Negli ultimi 40 anni sono state aperte altre quattro indagini preliminari sul caso Pasolini. Giudiziariamente, un’indagine può sfociare in un rinvio a giudizio o in un’archiviazione. Che un’indagine venga archiviata può significare sia una mancanza di volontà del giudice di andare fino in fondo, sia che la magistratura non ritenga ci siano elementi sufficienti per procedere. Ma nel frattempo si accertano fatti ulteriori, elementi che possono indubbiamente dare impulso ad altre indagini.
Come il famoso “concorso di ignoti” nell’omicidio…
Esatto. Come dicevo prima, è vero che sinora solo un processo è arrivato a sentenza definitiva in terzo grado. Ma è altrettanto vero che, nell’ultima indagine, è stata debitamente evidenziata la sussitenza di un “concorso di ignoti” (su una rosa di più di 120 persone, come scritto in questo articolo su Oggi e su Dagospia), che peraltro già era stata acclarata il primo grado ma poi misteriosamente abbandonata. E il caso Pasolini sta tutto qui: nel ribaltamento e nella confusione sui fatti, in buona parte dolosa. Una ferita ancora aperta per il nostro Paese e per la verità.
Lei lavora affinché sia fatta giustizia. Ma crede che il Paese vedrà mai una “vera” giustizia sul caso Pasolini, in modo che la ferita di cui parla si possa rimarginare dopo tanti anni?
Aprire totalmente i faldoni della verità significa scoperchiare il vaso di Pandora. Anche per timore di dar fastidio a certi nostri alleati, come gli Stati Uniti. Soprattutto in periodi come questo, in cui la scelleratezza di un autocrate avversario rinnova l’esigenza geopolitica di rimanere uniti. Ma non esiste un tempo sbagliato per la verità, né per fare luce su determinate questioni oscure. Il problema, guardi, non è di chi “ancora” si occupa di queste cose, ma piuttosto di chi queste cose non vuole ancora risolverle…