È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino
di Simone Spoladori
Entriamo nel film arrivando a Napoli in volo sul mare, accompagnati da una lunga inquadratura dall’alto carica di sogni e aspettative. Ce ne andremo – dopo due ore di emozioni intense e cristalline, come forse non ne abbiamo mai assaporate nel cinema di Sorrentino – in treno, mentre la voce di Pino Daniele canta Napule è, trasformati, noi come il protagonista Fabietto Schisa, da un racconto di formazione denso e universale. Si sapeva che con questo nuovo lungometraggio il regista napoletano avrebbe portato sullo schermo la storia tragica dei suoi genitori, morti quando era poco più che adolescente per una fuga di monossido di carbonio nella loro casa di montagna, un dramma a cui Sorrentino è scampato perché scelse di non seguire i genitori per andare al San Paolo a tifare il Napoli di Maradona. Quello che non sapevamo su È stata la mano di Dio è che Sorrentino non solo si sarebbe messo veramente a nudo, spogliando il suo cinema dai consueti barocchismi che negli ultimi film e serie televisive avevano sfiorato la maniera, per ripiegare su una forma più diretta, ma che anche sarebbe riuscito a rendere la sua storia personale del tutto universale, distante da una semplice confessione o da una parentesi biografica.
L’alter ego sorrentiniano, Fabietto Schisa, è un giovane studente di liceo classico nella Napoli di metà anni ’80, che vive con i genitori Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo), con il fratello maggiore Marchino (Marlon Joubert) e con una misteriosa sorella, perennemente chiusa in bagno a prepararsi. Da quest’ultimo dettaglio e da altri, come l’inizio con San Gennaro e il munaciello, comprendiamo che la Napoli in cui ci troviamo è un luogo tutt’altro che reale ma al tempo stesso incredibilmente “vivo”, un sito della memoria trasfigurato e indulgentemente grottesco, in cui la numerosa famiglia Schisa e i vicini di casa affrontano, tra farsa e tragedia, i problemi della loro quotidianità, nell’attesa epifanica del Messia: proprio lui, Diego Armando Maradona, che si dice potrebbe arrivare a Napoli a suon di fideiussioni, portato dal presidente degli azzurri Ferlaino per compiere una rivoluzione più sociale che calcistica, per ridare dignità agli oppressi.

Maradona ha la funzione di dividere il più intimo e personale dei film di Sorrentino nettamente in due parti: la prima scorre “nell’attesa” di Diego e mostra la ritualità quotidiana, confusa e irrisolta di Fabietto; l’avvento di Maradona coincide, di fatto, con la prematura morte dei genitori nella loro nuova casa di Roccaraso, località sciistica a una paio d’ore da Napoli. Il coming of age inizia con le parole di zio Alfredo, interpretato da Renato Carpentieri, che dice a Fabietto, al funerale dei genitori, che a salvarlo «è stata la mano di Dio», incarnata in quel profeta argentino che, segnando agli inglesi, aveva riscattato il suo popolo umiliato alle Malvinas e che quel giorno l’aveva spinto, invece di andare in montagna con i suoi, al San Paolo, a vedere Napoli-Empoli.
La seconda parte del film è allora una sorta di bildungsroman, un viaggio iniziatico, fatto di esperienze, tappe e stazioni, alla ricerca di uno scopo, di una meta e di una cognizione del dolore che permetta di ritrovare un orizzonte perduto. Questa seconda parte del film mostra anche la Napoli più sorprendente, notturna e onirica, suggestiva e poetica, sfondo ribollente alla ricerca interiore di Fabietto. La conclusione, proiettata verso una speranza, nasce da una presa di consapevolezza straziante e potente, la cui enunciazione finale non va scambiata (solo) per una dichiarazione di poetica. Fabietto, nelle battute conclusive del film, confessa al fantomatico regista Capuano, l’aspetto più doloroso della sua perdita: «non mi li hanno fatti vedere», dice riferendosi ai genitori, morti, al pronto soccorso. Risuona in quelle parole come l’elemento inafferrabile del dolore della perdita sia proprio l’impossibilità di cogliere ciò che sfugge alla vista, di guardare davvero la morte, di comprendere l’assenza nella presenza. Una ricerca, appunto universale, che rende È stata la mano di Dio, un film autentico e probabilmente il più riuscito ed equilibrato film di Paolo Sorrentino.
The Card Counter, di Paul Schrader
di Simone Spoladori
Peccato, senso di colpa, espiazione, redenzione, perdono: Paul Schrader, come sceneggiatore e/o come regista, racconta da 40 anni storie di uomini ossessionati, schiacciati e divorati da questi concetti. The Card Counter, con cui torna in concorso a Venezia quattro anni dopo il bellissimo First Reformed, è un’opera che, in modo sorprendentemente asciutto e diretto, ribatte questi temi e li aggancia a un altro straordinario personaggio che si aggiunge alla galleria di Schrader, l’ex galeotto William Tell, che ha il volto perfetto e dolente di Oscar Isaac. Tell è stato un soldato speciale, coinvolto nelle famigerate torture di Abu Ghraib, in Iraq, dal generale Gordo (Willem Defoe) e poi incriminato per questo.
Al di là della pena scontata, William non riesce a liberarsi dal peso delle colpe commesse, delle torture e dei delitti, il cui ricordo lo tormenta senza sosta. In prigione, però, ha imparato a contare le carte e vive come giocatore d’azzardo girando gli Stati Uniti e conducendo una vita da auto escluso, ai margini della società. A cambiare il corso della sua storia son due incontri, il primo con Cirk (Interpretato da Kyle Sheridan), un ragazzo inguaiato e indebitato, figlio di un altro “discepolo” di Gordo che non ha retto il peso di Abu Ghraib e si è tolto la vita, il secondo con La Linda (Tiffany Haddish), procuratrice di giocatori d’azzardo professionisti. I suoi nuovi compagni di viaggio sembrano il perfetto strumento per perdonare se stesso, ma quando finalmente si intravede l’uscita dal purgatorio, Will vi ripiomba, perché la redenzione è impossibile senza il sacrificio estremo.
Teso, asciutto, attraversato dal consueto nichilismo esistenzialista di Schrader, The Card Counter è un grande film, che con il riferimento al vergognoso episodio di Abu Ghraib sposta il consueto discorso di Schrader su colpa e redenzione dalla sfera personale a quella storica.
The Power of the Dog, di Jane Campion
di Maria Teresa Antoniozzi
La regista neozelandese Jane Campion ha da sempre meravigliato il pubblico con i suoi lavori di successo come un Angelo Alla Mia Tavola,con cui vinse nel 1990 a Venezia il Gran Premio della Giuria, o con l’acclamato “Lezioni di Piano” del 1993.
Quest’anno la regista è presente a Venezia nel concorso principale con “The Power of the Dog” (Il potere del Cane) tratto dal libro di Thomas Savage. Una storia dura e cruda, come dura e cruda è l’ ambientazione del film: siamo nel Montana nel 1925, in un contesto di progressiva modernizzazione circondato dall’impressionante scenario della natura che la registra ha sapientemente utilizzato per contribuire al successo del film.
Questo ambiente selvaggio a colori foschi ospita la vita dei personaggi del film: i due fratelli Burbank, Phil, interpretato da Benedict Cumberbatch, e George, interpretato da Jesse Plemons. La bravissima Kirsten Dunst veste invece il ruolo di Rosy, donna scelta da George come moglie. I due fratelli appartengono ad una famiglia facoltosa e sono proprietari di un grande ranch. Mentre George conduce uno stile di vita in conformità con la sua posizione di saggio amministratore dell’attività di famiglia, e mantiene un comportamento consono al suo ruolo di dirigente e padrone, Phil si identifica di più con le figure rozze e rudi dei suoi dipendenti. L’indecenza, la volgarità e la violenza sono le caratteristiche dei suoi comportamenti, rigettando ogni appello alla moderazione.
L’arrivo nella enorme casa di famiglia, della sposa di George, Rose, donna sensibile, affabile e amabile, viene accolto da Phil con aperte contrarietà e ostilità.
È qui che l’attenzione del film si sposta con dosato equilibrio su un altro protagonista della storia, Peter, interpretato da Kody Smit-McPehee, figlio studente universitario di Rose. Peter e Rose sono uniti da un forte legame e condividono la sofferenza della perdita della figura paterna morta suicida. Una sofferenza che ha reso l’amore di Peter per sua madre solido e inamovibile, e Rose una madre devota e protettiva. Peter con la sua calma meditativa, il suo amore per le piccole cose, personifica valori opposti a quelli che caratterizzano Phil. Sebbene questo all’inizio costituisca un movente per Phil per ferire e danneggiare i sentimenti dell’ apparente docile e fragile Peter, ben presto Phil si ritrova proiettato in un turbinio di antichi sentimenti da tempo volutamente seppelliti.
Tre dei quattro personaggi protagonisti del film subiscono nel corso del film dei cambiamenti della propria personalità, come a voler evidenziare il lavorio inconscio delle parti oscure che risiedono negli esseri umani. Solo George, figura riflessiva, assennata e ragionevole rimane nel corso degli eventi, immutato nel suo equilibrio fatto di ripetitività degli impegni e uniformità ai valori sociali
Mentre da rude uomo del ranch, Phil si trasforma ben presto nei confronti di Peter in figura benevola se non addirittura paterna. Ma, proprio quando la sua personalità viene sfiorata da un panorama di sentimenti di benevolenza, la situazione sfugge dal suo diretto controllo fino a causare e subire inesorabilmente le conseguenze del ‘Potere del Cane’.
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