E’ un mero concetto quello che l’artista Salvatore Garau ha rappresentato a Manhattan lo scorso 29 Maggio: un cerchio bianco lasciato a terra, che trattiene, nel suo centro, un punto rosso, il suo fulcro, anzi, il suo cuore. Si chiama Venere Piange, ideata per esprimere l’idea di una bellezza dimenticata, di un amore perso, svilito, sostituito dalla ricerca spasmodica e costante di una apparenza che vorrebbe essere in grado di restituire consistenza. Una fisicità sbiadita, penalizzata anche dalla mancanza di relazioni cui questo periodo storico ci ha costretti. Un’opera, dunque, che nasce da più riflessioni, in parte seguite all’isolamento imposto dal Covid; in parte alla perdita di contenuti che sta caratterizzando questi ultimi anni e che degenera sempre più, soprattutto nel mondo fittizio dei social. Concause, dunque, che irrompono nella quotidianità artistica del maestro Salvatore Garau, il quale – alla stregua di una provocazione, ma che è solo un invito alla riflessione – ci implora di soffermarci a entrare in relazione con uno spazio sì, privo di fisicità, ma non di contenuto: uno spazio che è, sia una dimensione interiore (che ci appartiene, quella del proprio sé), che estranea (perché appartiene ad altri), ma che certamente, essendo privata del suo limite fisico dall’autore, può finalmente, in quello spazio pensato e definito dal cerchio di Garau, mettere in contatto più dimensioni.

Venere Piange rappresenta, dunque, un’assenza (fisica) che trattiene l’essenza (contenuti), ovvero ciò che siamo o che dovremmo essere: un invito a pensare a ciò che non vediamo ma di cui siamo fatti, come le energie che ci abitano e ci muovono; l’entità e lo spirito che sentiamo dentro di noi e che inseguiamo. Le vibrazioni che danno spinta alla nostra vita, le percezioni e le intuizioni che ci illuminano, le pulsioni che ci fanno sentire vivi. Ma anche i ragionamenti, compresi quelli che ci frenano e le paure che ci governano o ci condizionano. Un concetto di “assenza” affine anche alle teorie fisiche e quantistiche che tanto si stanno sviluppando in questi ultimi anni e che, per questo, rafforzerebbero ancora di più questa concezione. Basterebbe pensare come i pregiudizi correlati ai sensi limitano la riconoscibilità della realtà tangibile: in questa accezione, infatti, solo riconoscere attraverso i sensi – vedere, toccare, ascoltare, ecc. – corrisponderebbe ad “ammettere l’esistenza”. Come se i sensi fossero la conditio sine qua non per riconoscere la realtà tangibile. Ma lo spazio delimitato da Venere Piange è una dimensione che pur occupando quel luogo, non aggiunge nulla anzi, toglie, permettendoci di interagire con un vuoto che è tale solo perché invisibile all’occhio, immateriale al tatto, ma presente se guardiamo al di là, di ciò che ci suggeriscono i cinque sensi.

E’ in quell’assenza, dunque, che si trova l’esistenza di altre dimensioni. Energia, invisibile, che si intreccia al visibile, ma entrambe vere. Entrambe reali. Solo noi possiamo accorgerci della loro presenza, credendo che lì, proprio nella volumetria cilindrica delimitata dalla base della circonferenza voluta da Garau, esiste una Venere che piange, triste, per la sua bellezza dimenticata, ormai confusa con la vana apparenza; ma anche l’amore, spesso privato del suo coraggio e del suo vigore; talvolta annacquato dal comfort di una routine rassicurante. Soprattutto la nostra qualità più importante, l’umanità, che giorno per giorno stiamo abbandonando alla ricerca di altro. Anch’essa smarrita nell’assenza di relazioni imposta dal Covid, come pure nella ricerca di una fisicità inutile, priva di contenuti nonché alimentata dalla superficialità del mondo virtuale. Una speranza, quella di Garau, ma anche un atto di fiducia verso il prossimo e la sua capacità di riflessione in grado di concedersi uno “spazio” interiore, proprio come quello che l’autore ci dedica in questa opera. Perché abbiamo già tutto dentro di noi e il resto è solo di più.
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Venere Piange può essere osservata in anteprima sulla piattaforma digitale delle Stanze Italiane dell’Istituto Italiano di Cultura di New York: la scultura immateriale dell’artista sardo, che nasce di fronte alla Federal Hall, è la terza di sette opere “immateriali” che verranno collocate in altrettante città sparse in tutto il mondo. Realizzata grazie al sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, che dedica al pittore un focus in anteprima e una “stanza virtuale” sulla piattaforma wwww.stanzeitaliane.it, è stata ideata dal neodirettore dell’Istituto Fabio Finotti. Il video racconta il posizionamento a New York dell’opera “Afrodite Piange” di Garau sulle note del violino di Anna Tifu, la chitarra di Andrea Cutri e la batteria suonata dallo stesso autore, componente negli anni ’70 e ’80 degli Stormy Six.

Afferma Garau:
“Nel momento in cui decido di “esporre” in un dato spazio una scultura immateriale, quel luogo concentrerà una certa quantità e densità di pensieri in un punto preciso, creando una scultura che dal solo mio titolo prenderà le più svariate forme. Il concetto delle mie sculture si discosta completamente dalle provocazioni di Marcel Duchamp agli inizi del ‘900 o successivamente dell’arte concettuale degli anni Sessanta. L’assenza della materia per me è un atto d’amore verso il non conosciuto e il mistero al quale quasi l’intera umanità si affida”. Prosegue Garau: “Stiamo vivendo un momento in cui la nostra fisicità, il nostro esserci è sostituito dalle nostre immagini virtuali e dalla nostra voce (anche questa impalpabile). Il nostro essere carne e ossa deve fare i conti con l’assenza che è la vera presenza in questi tempi”.
Salvatore Garau, nato a Santa Giusta (Oristano) nel 1953, si è diplomato all’Accademia nel 1974. La prima personale è nel 1984 nello Studio Cannaviello di Milano, seguiranno mostre, a Lugano, Losanna, Barcellona, San Francisco, Washington, Strasburgo, Londra; due presenze alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2003 e 2011. Negli ultimi anni ha esposto nei musei di Saint-Etienne, Cordoba, Brasilia, San Paolo, Montevideo. Nel 2017 ha scritto e diretto “La tela” docufilm girato in un carcere di Alta Sicurezza con la fotografia di Fabio Olmi. Nel 2019 ha girato un docu-thriller prendendo spunto dalle ultime opere (non ancora esposte) Futuri affreschi italiani. A febbraio scorso ha collocato in piazza della Scala a Milano la sua seconda installazione immateriale, Buddha in contemplazione. La prima dal nome Uomo che pensa.