Laurearsi in matematica e scoprirsi fotografi d’eccezione non è proprio un’esperienza comune, eppure, questo può accadere quando si decide di accettare il richiamo delle proprie passioni. Così è stato per Raimondo Rossi, in arte Ray Morrison, fotografo di Alta Moda che della moda non si accontenta, appassionato di arte e bellezze non stereotipate, tantomeno impacchettate dentro luccichii e perfezionismi di cui non saprebbe cosa fare, eccetto che notare la poca originalità con la quale la moda interpreta sé stessa e i suoi modelli stantii, eccedendo talvolta anche in provocazioni prive di senso per la società come per il singolo.

Perché Ray Morrison non gioca con Barbie e Ken: non cerca di rubare l’attimo nel quale mise, luci, trucco e vento nei capelli rappresentano il momento di perfezione scenica da non perdere perché non si ripeterà. Bensì ricerca qualcos’altro, che sia più introspettivo, che trattenga l’umanità che ci appartiene e che spesso viene trascurata, soprattutto in certi contesti. Morrison cambia del tutto prospettiva e, proprio come farebbe un grande regista o, Alfred Hitchcock, sceglie l’attesa per inventare i suoi scatti, insieme a uno stile che proprio la moda gli restituisca rinnovato: i ritratti degli uomini e delle donne che fotografa cedono fieramente e amorevolmente ai propri volti, dunque anche ai propri difetti.

I suoi scatti, seppur scevri di effetti scenici, risultano ben colmi di storia, origini e identità passate. Ma anche presenti. Forse salutano un futuro probabile. Così i suoi ritratti possono sembrare astratti, a tratti surreali e in cui la composizione fotografica rilascia sempre un’armonia. Ma è l’attesa la nota distintiva della sua fotografia: preferisce aspettare fiducioso, esattamente come quando da bambino aspettava che sua madre sviluppasse le fotografie che gli aveva scattato in certi istanti; quel momento magico in cui l’attesa si trasformava in presente, nel quale ognuno poteva rivedere qualcosa di sé e che lo sorprendeva perché diverso da ciò che immaginava o presumeva.

Allo stesso modo Morrison aspetta che i suoi modelli si abbandonino alle persone che sono, non a ciò che rappresentano; attende che si riconcilino con la propria naturalezza; che cerchino e trovino sé stessi in modo che possano raffigurare, liberi, la propria identità, non una copia patinata – quasi sempre vincente e falsa – di quello che vorrebbero che gli altri vedessero o che rappresentassero. Morrison cerca un’identità che non nasconde la propria fragilità, le debolezze, le imperfezioni (foto). Dunque, un’identità che è verità, contenuto, accettazione. Persone, nessuna bambola e nessun gladiatore. Non stereotipi, ma semplici uomini e donne nelle sembianze più simili e attinenti all’idea che hanno di sé stessi. Con semplicità, schiettezza, umanità. Senza menzogna, né forzature. Nessuna volontà o costrizione a cercare, o meglio definire le linee di un viso che perfetto non è, né sarà mai. Perché la ricerca di Morrison è diretta a valorizzare l’identità della persona attraverso l’immagine e l’indumento che indossa e, mai il contrario, ovvero a rafforzare le apparenze (o ciò che si vorrebbe rappresentare nella società) attraverso la scelta di un capo d’abbigliamento.

E’ una resa dei conti quella di Morrison, un modo per evidenziare, con eleganza, che siamo fatti di altro, che possiamo andare oltre la fisicità e che, l’immagine, quando è fine a se stessa, rappresenta niente rispetto alla persona che si è. Ma la società non si muove in questa direzione, maggiormente fra i giovani, che di social – quindi di immagine – vivono. Soprattutto, non c’è molta volontà nel cercare di approfondire chi “siamo” perché l’interesse verte solo verso ciò che “rappresentiamo”.

Come pure la costante tendenza a mettere in scena le proprie vittorie e i propri successi. In cui anche il corpo diventa, è trofeo da esibire – e scambiare – per ottenere qualcosa in più. Mai vissuto come scrigno prezioso di cui aver cura, involucro cui confidare passioni, sussurrare percezioni, contenitore cui attingere intuizioni, segnali, emozioni; strumento per sentire e vivere sulla pelle la nostra vita e la nostra storia; rivelarci la nostra identità più profonda e autentica; fino a decidere di dedicarla a qualcuno che amiamo. E’, e resta, invece, solo un limite invalicabile di apparenza e bellezza ad essa correlata. E qui abita l’inganno, in questo errore concettuale: raramente la vita vera di un uomo è fatta solo di successi, anzi. Si diventa e si resta uomini anche e, soprattutto, con i fallimenti. Il dolore. La comprensione delle fragilità. Le paure. Mentre nella finzione atta a nascondere certi aspetti, vivono e si alimentano l’apparenza, i complessi, la pochezza di contenuti; l’inesperienza. Nessuna evoluzione della persona, tantomeno del sé. Nessun desiderio di conoscenza del prossimo. Tantomeno l’interesse a scoprire come viviamo e chi ci è accanto. Nessuna maturità legata alla crescita, al valore degli accadimenti, come l’accettazione di una sconfitta. Morrison ha bisogno di questa umanità e, la cerca, forse pretendendola, in un contesto patinato, luccicante e ricco come quello dell’Alta Moda, che proprio di apparenza si nutre.

Con questo approccio umanista, Morrison sviluppa il suo progetto, Le Note della Moda, nel quale sono palesi il suo senso artistico e la poesia: entrambi scorrono lungo tutto il cortometraggio, sullo sfondo di note musicali che con eleganza stimolano il ricordo sensoriale e la memoria di ciò che ci portiamo dentro. Una placida staticità invita a osservare i dettagli delle mise proposte, ma anche a fare una pausa dentro di sé, come per vivere a rallenty un’esperienza che, in tal modo, invita ad ascoltarsi prima e, a relazionarsi poi, con gli elementi di moda inseriti nel progetto. Ma non solo, perché in questa placidità affiorano ricordi e visioni intrecciati a tradizioni, ruoli, origini, passaggi generazionali: l’heritage da cui deriviamo diventa bellezza perché è già archetipo, in quanto in grado di riportarci in un mondo che è stato, che è passato, dunque esistito, nel quale l’esperienza è stata vissuta in una umanità normale la quale, sublimando l’imperfezione la trascende fino a che, non appena è accostata al contesto e agli elementi della moda, in questo divenire non è più solo bellezza, ma arte. Contesti e persone lontani dai red carpet perché veri, reali, originali e pieni di umanità, pronti a raccontare chi siamo in modo semplice, dentro una qualsiasi quotidianità, una normalità che appartiene a scene di vita familiare e a relazioni che costituiscono la vita reale, non più la copertina di un giornale. Che solo in un giornale possono restare.