
Il regista e fotografo Alexo Wandael ritorna all’opera per raccontare la realtà degli homeless in LA, Skid Row. Dopo il cortometraggio To My Pink Lady Cristina, Wandael porta la macchina da presa tra gli occhi, le mani e la voce degli abitanti di una comunità ignorata dai più fortunati con Tomato Soup in Skid Raw (LANYMA films). Grazie alla collaborazione con Monique Noel (Producer, membro di LA CAN, Los Angeles Community Action Network) e Pete White (Producer, Founder and Executive Director di LA CAN, Los Angeles Community Action Network), il documentario assume l’autenticità di una narrazione cruda e necessaria. Siamo di fronte ad “uno schiaffo morale alla classe borghese che guarda dal finestrino”, nel mezzo della ricchezza che la California rappresenta nel mondo. Wandael unisce la sua autorialità come fotografo e architetto ad una visione di ispirazione neorealista e allo stesso tempo concettuale.

L’attore Yari Gugliucci si fa portatore di una realtà consumistica mentre divora la tomato soup, colmando la distanza silenziosa tra chi può agire e chi subisce contro la propria volontà. Essere homeless non è una scelta, come invece potrebbe pensare Trump, di cui Wandael riporta un footage audio per rimarcare la mancanza di azione politica da parte dell’establishment. Oltre alle domande al regista, La Voce di New York ha realizzato una tavola rotonda video con Daniela Ovi (editor e producer), Yari Gugliucci (attore), Monique Noel e Pete White (LA CAN), che trovate in fondo all’articolo.
I primi minuti del documentario ripercorrono alcune fotografie che hai scattato, da dove sei partito per costruire l’idea di Tomato Soup in Skid Row?

“Ho inserito il mio lavoro fotografico del 2016 come overture del documentario,anzi la struttura del documentario è diventata operistica: c’è un’overture, il primo atto, un intermezzo. L’idea è nata da quando mi sono trasferito a Los Angeles e sono passato per la prima volta in Skid Row, un’area affianco a Downtown dove risiedono tantissime persone che vivono per strada letteralmente in una tendopoli. Ci sono blocchi e blocchi di tende, infatti non puoi nemmeno camminare sui marciapiedi. Io venendo da New York non avevo mai visto una cosa simile. Il feeling che ho avuto quando siamo passati lì era proprio di una zona di guerra, quasi un refugee camp. Nel 2012 sono stato con l’esercito italiano in Afghanistan per un reportage, Skid Row mi ha fatto rivivere le sensazioni che ho provato stando lì. Nel 2016 ho deciso di fare un mio progetto fotografico ispirato al grande Richard Avedon: ho preso un background bianco e sono andato lì, lo attaccavo ai muri e chiedevo agli homeless se potevo fargli un ritratto. Questo progetto che è diventato un libro, mi ha messo in contatto con queste persone, già da lì mi sentivo ispirato all’idea di poter creare un contenuto video che desse voce alle loro storie. Dopo il mio primo short film ho cominciato a lavorarci seriamente. E’ un documentario perché le storie sono tutte vere ma c’è anche una story line con l’attore, Yaru Gugliucci, che lo fa diventare un docu-film”.

Il simbolo del tuo film è la zuppa Cambell’s, ne usi anche un commercial come intermezzo, come e perché ti sei appropriato di questo simbolo?
“Abbiamo deciso di usare uno dei vintage commercial della Campbell’s, mi interessava perché l’ha già usata Warhol elevandola ad icona della società americana, mi è piaciuto usare questo simbolo e decostruirlo nel suo significato. Il poster del film è una reinterpretazione della tomato soup can di Warhol ma è completamente distrutto e gocciola, però non si capisce se è zuppa o angue. La scritta non è più Campbell’s ma Skid Row”.
Come hai organizzato la selezione delle storie e il processo di casting?
“Il casting è stata la parte centrale che ha richiesto più tempo, l’ho fatto io di persona grazie all’aiuto di LA CAN. Tramite loro sono riuscito a creare dei gruppi, abbiamo separato in uomini e donne per facilitare il processo: abbiamo iniziato con una ventina di persone per gruppo, quasi una volta alla settimana per quasi tre mesi ho incontrato queste persone e abbiamo parlato del progetto. Ogni settimana il gruppo si rimpiccioliva e siamo arrivati alla fine con un gruppo di persone disposte a parlare di fronte alla camera, una cosa che non è affatto semplice dato il trauma che ognuno di loro potrebbe aver vissuto”.

“La parte interessante per me era quella di raccontare e sfamare una specie di mito per cui la maggior parte della persone pensa che chi diventa homeless abbia problemi mentali o problemi di droga. I numeri che poi metto alla fine del film sono molto chiari: il 30% della popolazione homeless americana ha questi problemi. Il restante 70% è diventata tale per altri motivi come la povertà, la mancanza di affordable housing, sono problemi sistemici di una società a confronto con i problemi personali come può essere la dipendenza da droghe. Quello che voglio esprimere attraverso il film è che queste persone erano come tutti noi, avevano lavoro, famiglia, e per un motivo o per l’altro si sono trovati a dover fare i conti con la homelessness, questo è il cuore della narrazione a cui tengo. In realtà si tratta di una condizione nella quale può capitare chiunque”.

Il tuo documentario è uno schiaffo morale ad una classe borghese che guarda dal finestrino e non agisce. La ricchezza di Los Angeles è in netto contrasto con la sua stessa povertà.
“La California che ha il quinto GDP mondiale, è uno Stato ricco. Uno Stato come la California che non riesce a risolvere il problema della homelessness è incredibile. Non c’è la volontà di risolvere questo problema. Manca la cultura, l’educazione, la consapevolezza. Il documentario è come dici tu uno schiaffo che dobbiamo dare a noi stessi. Tutte le persone possono aiutate ma chi deve veramente aiutare è il governo, l’azione tramite la legislazione di un sistema che può e deve contribuire. Questa è un’altra pandemia, una pandemia sociale che c’è da anni. Ci sono persone che parlano di questo problema come una situazione aggravatasi negli ultimi due anni ma non è così”.

Infatti ci sono delle registrazioni di Trump in cui viene ribadito proprio questo concetto. E’ un audio molto forte da sentire, dimostra che una delle persone più potenti del mondo ha avuto la possibilità di cambiare le cose ma non l’ha fatto.
“Mi è piaciuto usare quello spezzone perché dall’altra parte c’è il peso dell’affermazione di Keyo “Nessuno decide o sceglie di diventare homeless” mentre l’audio di Trump dice che ad alcuni forse piace essere homeless. C’è una distanza troppo grande tra la politica e una realtà che non si parlano. Mi piaceva creare questi estremi”.
L’arte arriva là dove le persone cercano di sopravvivere. E’ un altro degli aspetti che evince dal tuo lavoro, tutti i protagonisti in qualche modo sono legati all’arte o producono arte, come ad esempio musica o poesia.
“E’ stata una bella casualità, sottolinea come l’arte, la musica e l’arte visiva in generale riescano ad unire e a dare alle persone un senso di appartenenza. Questo lo trovo molto importante anche se l’ho capito dopo, non è stato voluto da parte mia”.

Prima abbiamo parlato di contrasto riferendoci a Trump, passiamo all’attore del documentario, Yari Gugliucci. La prima volta che abbiamo parlato mi hai detto che Yari è la rappresentazione di tutti noi, dapprima coinvolto nelle storie e poi felice di tornare alla sua normalità.
“Dato che nessuno cammina per strada a Los Angeles, vediamo tutti un mondo di povertà dalle nostre macchine. Yari è seduto, ha la fortuna (o sfortuna) di essere invitato ad ascoltare le storie di chi sta osservando. La domanda è cosa farà Yari dopo che ascolta queste storie? Cosa gli rimane? Non è un film hollywoodiano, non c’è un lieto fine. La poesia che ne scaturisce, scritta da me, parla degli Stati Uniti e dell’America mettendo in luce alcuni contrasti che dovrebbero portarci all’azione, irrisolti. Capaci allo stesso tempo di incuriosirci, così da informarci”.

Il tuo documentario arriva in un momento in cui non si è smesso di parlare di razzismo.
“Quello è l’elefante nella stanza, non c’è bisogno di menzionarlo ma si capisce dal film, dalle sequenze, dalle storie delle persone e dai numeri. La maggior parte delle persone a Skid Row sono di colore. Il documentario oltre a parlare di homeless parla anche di un problema sistemico quale il razzismo“.
Nei titoli di coda “gridi” una citazione di Nelson Mandela. In sostanza, non avere una casa non è una scelta, esattamente come non lo era la schiavitù, è una cosa che riguarda gli uomini e solo gli uomini possono risolverla.
“E’ una frase di cui sono profondamente innamorato, dice tutto. Parla proprio di uno dei nostri problemi che è la povertà, creata dagli esseri umani come l’apartheid, la schiavitù. L’essere umano è riuscito a risolvere l’apartheid e la schiavitù in una certa maniera. Dovrebbe riuscire a farlo anche con la povertà”.

La tua regia è autoriale, visionaria nonostante si tratti di una narrazione realistica e autentica.
“Io sono il prodotto di undici anni di architettura, otto anni di fotografia di moda con un intervallo di foto di reportage, l’unione di tutto questo è l’origine della mia regia. E’ una situazione surreale quella di essere davanti alle persone che raccontano le storie tragiche mentre mangi, l’idea era di creare un mondo consumistico che guarda a un mondo diverso. Volevo riportare questo istinto voyeuristico di continuare mandare giù la zuppa e ascoltare. Lo trovo molto espressivo rispetto a quello che è la società di oggi, noi continuiamo a consumare nonostante tutto. Mi piace l’elemento della fantasia, del concettuale e del metaforico in questa distanza silenziosa”.