Sono passati 50 anni esatti dall’uscita di uno dei cult movie più famosi di tutti i tempi.
Stiamo parlando di “Lo chiamavano Trinità”, diretto da Enzo Barboni con lo pseudonimo E. B. Clucher. Mezzo secolo dopo, con un gradimento di pubblico che è addirittura aumentato negli anni, questa perla cinematografica è riconosciuta unanimamente un successo internazionale.
Marco Tullio Barboni, figlio del regista di quel film, appartiene ad una illustre famiglia, i Barboni, che hanno segnato tratti importanti del cinema italiano d’Autore. Lo zio Leonida è stato un magistrale direttore della fotografia, amatissimo da Anna Magnani; il padre Enzo, prima operatore alla macchina poi direttore della fotografia ed infine regista con lo pseudonimo di E.B. Clucher, da “Lo chiamavano Trinità” in poi ha legato gran parte della sua fama a film interpretati da Bud Spencer e Terence Hill e all’indimenticabile filone dei fagioli western. Frequentatore di set fin da bambino, Marco Tullio è stato lui stesso regista e sceneggiatore, ed ha proseguito la carriera familiare con caparbietà e notevole talento. Negli ultimi anni è diventato un apprezzato e pluripremiato scrittore, i cui libri hanno riscosso ampi consensi di pubblico e critica. Lo intervisto a Roma, dove vive da sempre.

Marco Tullio Barboni e la tua vita nel mondo del cinema: quante produzioni internazionali – e quali- legate ai film di tuo padre hai seguito?
“In varie forme le ho seguite tutte. Le prime come attento e appassionato osservatore, tutte le altre come autore dei soggetti e delle sceneggiatore, oltre che come collaboratore di mio padre in tutte le fasi della lavorazione: dall’ ideazione all’ edizione.
Per la verità, in occasione del primo Trinità, nessuno immaginava che sarebbe diventata con tanta straordinaria rapidità una produzione “internazionale”. Subito dopo però, il successo prima europeo eppoi, sebbene più ridotto, totalmente inaspettato di “Lo chiamavano Trinità” negli Stati Uniti, distribuito nientemeno che da Joseph Levine con il titolo “They call me Trinity”, la rese tale e spianò la strada a tutte le successive. La gran parte di queste sono state girate negli Stati Uniti, prevalentemente in Florida ma anche a New York e in Arizona, ed hanno visto la partecipazione di ottimi interpreti statunitensi che ricordo con grande piacere non solo per il loro talento ma anche per essere stati straordinari compagni di lavoro. Da Farley Granger a Harry Carey Jr., da Gregory Walcott a Robert Middleton, da Vincent Gardenia a Robert Vaughn”.
Da una vita professionale nella sceneggiatura all’approdo alla letteratura, con grandi successi e riscontri. Perfino in terra d’America. Ce ne parli?
“Si è trattato di una doppia scommessa. Il protagonista del mio libro …e lo chiamerai destino è George Martini, un italo americano che è nato e vive a New York. Si tratta di uno “scienziato del nuovo paradigma” come vengono definiti coloro che si sforzano di coniugare scienza e spiritualità, che indagano l’universo delle emozioni e che non che esitano a infrangere, appunto, i paradigmi ritenuti invalicabili dalla gran parte della comunità scientifica. Avendo personalmente seguito numerosi seminari di questo straordinario genere di studiosi (Bruce Lipton, Joe Dispensa, Gregg Braden, Roy Martina…) prevalentemente provenienti dagli States ed alcuni con cognomi echeggianti origini italiane, ho pensato di dare questa caratterizzazione al mio protagonista e, tramite lui, indagare il magico rapporto tra Conscio e Inconscio, straordinariamente significativo anche in un uomo abituato a padroneggiare certe tematiche e a lavorare su di se. Nella vicenda, Conscio ed Inconscio sono rappresentati, antropoformizzati, come due diverse entità dello stesso protagonista, e si affrontano attribuendosi o rinfacciandosi le scelte e le responsabilità assunte durante l’esistenza del medesimo (in una versione cinematografica George Clooney sarebbe un perfetto George Martini, interprete di entrambi i ruoli).
L’ambizione era quella di rendere fruibile una tematica ritenuta ostica ed avvicinare quest’ultima ai lettori attraverso il racconto di una vita, metafora di milioni di altre vite. Vinte la scommessa, e le diffidenze, in Italia dove prima il libro eppoi la sua trasposizione per il teatro hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, ho deciso di seguire il consiglio di un’amica originaria di New York e di tradurlo in inglese per provare a farlo conoscere, tramite Amazon, anche negli States. Ebbene, al di là di ogni più rosea previsione …and you call it faith è risultato tra i finalisti dell’ America Book Festival e ha ottenuto un lusinghiero riconoscimento al 27th Annual Writer’s Digest Book Awards dove la giuria lo ha gratificato di una bellissima recensione, magnificandone trama e personaggi. Davvero niente male per un libro indipendente di un autore italiano praticamente sconosciuto sul mercato editoriale statunitense”.
Cosa ti piace comunicare della realtà che vige nel nostro paese, vestendo i panni di intellettuale quale sei, agli italiani che vivono all’estero? Cosa devono sapere della loro Patria lontana che i media non riportano e tendono a trascurare?
“Lasciami rispondere con un aneddoto, o, per meglio dire, con un ricordo. A metà degli anni novanta del secolo scorso mio padre ed io abbiamo trascorso più di un mese negli States per vedere luoghi e incontrare attori per una serie televisiva che avevamo in preparazione. Ebbene, in quella occasione, chiesto al nostro contatto sul posto dove avremmo potuto vedere le partite del campionato italiano, siamo stati, di volta in volta, indirizzati verso dei locali dove gli Italiani d’America seguivano quegli incontri. Posso assicurarti che, tanto a New York, che a Los Angeles che a Phoenix, sono state esperienze fantastiche: c’era sì il desiderio di seguire le partite ma, prima di tutto e sicuramente più forte, c’era la volontà di ritrovarsi, di scambiarsi opinioni sulla terra d’origine -spesso in un italiano storpiato dall’influsso dei dialetti parlati in patria prima di trasferirsi-, di tenersi informati sulla realtà del loro Paese. Quello che loro hanno comunicato, e vorrei dire “insegnato”, a me è stato molto più intenso e significativo di quanto io potessi, e potrei, comunicare a loro. Agissimo con quello stesso spirito di appartenenza, le cose andrebbero molto meglio anche dalle nostre parti”.
Una domanda inevitabile: la tua opinione su Biden come nuovo presidente degli Stati Uniti.
“Devo ammetterlo: la mia opinione su Joe Biden è fatalmente influenzata da quella pessima che ho di Trump. Pur nel mio più assoluto rispetto per la volontà espressa a suo tempo da un grande popolo come quello americano, la mia coscienza non mi ha consentito di accettare i comportamenti e le scelte del tycoon. Mai, credo, nessun Presidente, democratico o repubblicano che fosse, ha condotto il suo mandato con l’arroganza e la protervia ostentata da Donald Trump in innumerevoli occasioni: dai licenziamenti a raffica di uomini e donne da lui stesso nominati e rinnegati al primo accenno di non supina obbedienza, al tentativo di cancellare forme di assistenza alle fasce più disagiate della popolazione, alla più sfacciata negazione dei cambiamenti climatici. Succedere ad un personaggio con tali caratteristiche non basta, naturalmente, a fare di Joe Biden un grande Presidente. Io, tuttavia, ho fiducia che dimostrerà di esserlo. Di lui so di una vita segnata da grandi tragedie personali e so anche quello che affermava in proposito un grande poeta come il libanese Khalil Gibran: “Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono quelli cosparsi di cicatrici”. Ecco:credo che di un’ anima forte e di un carattere solido capace di equilibrio, empatia e umanità sia quello di cui hanno bisogno gli Stati Uniti. E il mondo intero”.
L’ultima volta che sei stato in America? E quale sarà il tuo prossimo viaggio oltreoceano appena sarà possibile tornare a muoversi più o meno liberamente?
“Manco dagli Stati Uniti esattamente da nove anni. Due settimane trascorse a Washington e New York con mia moglie e mia figlia. Nulla di professionale, nell’occasione: molti musei, molti spettacoli, molte escursioni. Con me a condurre loro nei posti più suggestivi conosciuti in occasione dei miei viaggi precedenti e con mia figlia Ginevra a fare altrettanto rispetto a quanto scoperto durante la frequentazione degli stage presso la New York Film Academy. Quanto al prossimo viaggio, non abbiamo dubbi: San Francisco. Per quello che rappresenta e per ciò che ha rappresentato nella storia del cinema americano”.
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