Un gruppo di danza che si sia impegnato, di questi tempi, a raccontarci il suo punto di vista sullo scottante tema della famiglia, addirittura in una Trilogia divisa in tre distinti spettacoli – Padre, Madre, e Figlio – non può che essere meno che eroico e ben sicuro delle proprie capacità espressive per non cedere al solito bla bla retorico, lacrimoso e/o linguisticamente didascalico. Per fortuna l’originalissimo gruppo in questione, – che si è dato il calzante nome di Peeping Tom (Guardone) -, non teme alcun pericolo. Da quando è nato in Belgio, nel 2000, grazie alle intelligenze creative dell’argentina Gabriela Carrizo e del francese Franck Chartier, non ha fatto che accumulare successi, vantare co-produzioni e grondare di premi, grazie all’indefinibile cifra stilistica delle sue pièce. I Peeping Tom amalgamano danza, acrobazia, recitazione e canto e inchiodano tutte queste discipline ad una estetica iper-realistica, infilata entro scenografie concrete, ma scombussolate o distorte da un’instabilità percettiva ed umana, che contraddice ogni logica razionale del tempo e dello spazio.
Vorremmo subito inoltraci nei meandri della loro Trilogia famigliare costata anni di lavoro: Kind (Figlio, 2019), Moeder (Madre, 2016) e Vader (Padre, 2014) radunata in quest’ordine e per la prima volta , nel lungo e importante festival italiano “TorinoDanza 2019”. Tuttavia ci preme anzitutto annunciare l’imminente debutto nord-americano del gruppo con 32, Rue Vandenbranden , all’Harvey Theater di Brooklyn (20-23 novembre) nell’ambito del “BAM’s Next Wave Festival 2019”. La pluripremiata pièce ha girato il mondo per dieci anni e proprio a New York cesserà, non senza tristezza, la sua corsa. Addio alla sua neve, alla sua pioggia, ai suoi refoli di vento in cima a una montagna isolata e frustrata dalle intemperie, ove passano di tanto in tanto sciatori allegri, mentre sette, tormentati, personaggi entrano ed escono da due casupole prefabbricate che si fronteggiano.
Una giovane incinta, languida e arcigna, è in cerca di un padre per il suo futuro figlio. Una coppia risolve nell’attrazione fisica i propri guai, uno dei quali è il sospetto, più che fondato, che il partner maschile sia anche il padre del nascituro. Due fratelli, uno timido e infantile, l’altro estroverso e narcisista, convivono con una madre-natura corpulenta e canora – la performer ma anche mezzo-soprano Eurudike De Beul, dal 2000 interprete assidua del gruppo – qui impegnata a convogliare il figlio fragile nelle braccia della gravida. Per questi intricati legami la piccola comunità è in preda a disperate solitudini e a terremoti che si scaricano spesso sulle loro fragilissime abitazioni. In fondo, stiamo già assaggiando ciò che riserva la Trilogia famigliare. Ci incanta la stessa bravura degli interpreti nell’invenzione di una danza che scatta in insiemi persino pericolosi, in assoli acrobatici. I corpi sembrano di plastilina, tanto si sanno piegare, attorcigliare, avvinghiare. La musica – di solito pezzi classici o pop, abbinati a gorgheggi e tumulti canori senza firma – li avvolge con qualche piccolo testo sparso qua e là. Un montaggio quasi cinematografico dal timing perfetto, giustappone le loro continue sorprese.

Nel montanaro 32, Rue Vandenbranden , là dove forse abita anche l’ultimo dei Moicani, la comunità infreddolita è in via di autodistruzione. Ogni personaggio non riconosce più il confine tra ciò che è successo in realtà e ciò che crede sia successo. Un’ultima danza di gruppo con mirabolanti slanci femminili, ci dice che la neve incarognita o fiabesca, funge solo da propulsore per questo iper-realismo sempre in fuga da se stesso, e in bilico tra inconfessabili misteri e blande certezze, come in certo teatro del regista svizzero Christhof Marthaler,
L’habitat è importantissimo anche nella Trilogia. In Vader (Padre) siamo in una casa di riposo, in Moeder (Madre) in un museo e in Kind (Figlio) in un anfratto boschivo. L’ospizio di Vader, popolato per lo più da vecchi, (sette protagonisti, diventano 18 con attive comparse) è quasi sotterraneo: la luce filtra da un’unica finestra e sembra già di essere tra la vita e la morte. Il padre è lo straordinario ottantenne Leo De Beul talvolta in carrozzella, talaltra concentrato in balli assecondati da un’orchestrina che suona canzoni orecchiabili. Suo figlio – un gigante di mezza età – entra ed esce solo per visite fugaci ed è a sua volta padre di un giovanotto che gli rimprovera di non aver mai condiviso nulla con lui e con la famiglia. Tre generazioni a confronto: un micidiale cocktail di indifferenza affettiva rotta dal vecchio padre: ben accudito da inservienti/ballerini dell’ospizio li crede figli segreti, tra momenti di presenza e allucinazioni, anche esilaranti. E’questo una sorta di Dio smemorato senza più alcun potere sulle proprie creature e in procinto di abbandonarci come ci ha del tutto lasciati, nel bene e nel male, la figura del pater familias del XIX secolo.
In Moeder siamo pure in un interno: il museo è asettico e strano. Accoglie una camera funeraria o una sala parto? Un maturo padre e custode del museo, annuncia la tristezza del giorno: una donna (madre?) rantolante appare su di una bara nella sala parto. Il dolore di una figlia si liquefa in una danza strascicata a terra, sull’acqua creata da effetti sonori, ma anche sulle copiose lacrime di un’immobile donna delle pulizie. Una giovane culla il suo neonato: esplode la gioia. Nella sala parto tutti si trasformano in rock-star e cantano. Peccato che la vertigine dinamica, avvolta nel cellophane in cui si esalta la genitrice, le faccia sottrarre il pargolo da una feroce infermiera asiatica, sempre dolorante e, nel corso della pièce, sempre incinta. Ai genitori del neonato sottratto- una bimba- vengono consentite visite solo per i compleanni.
Intrappolata com’è entro un’incubatrice, la piccola ingigantisce ad ogni genetliaco sino a diventare una debordante massa di carne. Raggelante. Tanto più quando si scopre tra i quadri del museo, il disegno di un cuore pulsante, sanguinolento e in un cassetto della parete la figlia obesa dell’incubatrice: morta. Sua madre insegue (in sogno?) una ragazzina “normale”; il padre-custode dichiara di essere orfano e vedovo due volte. Ironia pruriginosa e brutale, rafforzata nel finale quando la sala parto acquista i colori di un giardino fiorito. Una danzatrice aveva accostato la sua guancia a un paesaggio di natura: la madre, figura centrale per lo sviluppo cognitivo- emotivo dei figli, è oggi troppo spesso sfuggente, irraggiungibile. Un nostalgico profumo di fiori?
In Kind siamo all’aperto: l’anfratto boschivo è anche roccioso, delimitato da un alta e piatta parete bianca sempre in procinto di sgretolarsi. Il paesaggio è notturno, a tratti dal sapore romantico e fiabesco. Sa proporci una grossa luna, laggiù nel fondale. Forse perché solo la fantasia di un bambino percepisce un mondo capace di offrigli sogni e sicurezza affettiva. Qui, però, nulla è rassicurante. Vi ritroviamo la stessa meravigliosa performer dell’incubatrice di Moeder: scorazza come una normale bambina su di una bicicletta che a stento contiene il suo corpo. Si addolcisce quando vede sbucare dalla foresta un cervo dalle gambe umane e in tacchi a spillo. Ma poi è pronta a imbracciare il fucile contro una famigliola di turisti in tenda nascosta nel fogliame, come fa il suo violento padre, una guardia forestale.
La paternità si risolve in un continuo rimbrotto e pestaggio della figlia, nell’insegnamento ad uccidere e nella totale indifferenza ai richiami d’affetto. Del tutti elusi anche dalla presunta madre, una sorta di ninfomane, che costringe la guardia forestale a una maratona di baci acrobatici di grande sensualità e fluidità danzante. Di punto in bianco il “Kind” al femminile ci trasporta nella Liebestod di Richard Wagner con voce sostenuta e limpida. Spiazzante dettaglio poetico, lanciato verso un altrove di amore e morte per lo meno inaspettato. Nel finale apocalittico, con pioggia di rocce e alberi, emergono figure nude quasi di gommapiuma con il volto all’incontrario o biancovestiti alieni che si abbracciano. Stirpe del futuro nell’immaginario della figlia? Se è così, si getta una luce di speranza, ma ancora una volta di mistero nella cosmogonia traballate dei Peeping Tom capaci di buttarci a capofitto nella voragine delle nostre tribolate relazioni famigliari ed umane, e di volarne via con speziati picchi di danza. Magici.