Jean Paul Sartre e Simon de Beauvoir, visitando Selinunte, dissero: «Interrogammo i templi greci, il loro silenzio aveva più peso di tante chiacchiere». Ed è profondamente vero: nessuna descrizione può sostituire una visita a quel complesso di rovine. Esse hanno destato sempre un profondo fascino in chi, con animo sensibile, è andato a visitarle. Come Salvatore Quasimodo, uomo di poche parole ma che a Selinunte diventava loquace e comunicativo; Cesare Brandi, che venne a Selinunte varie volte e definì le rovine “le più belle che esistano al mondo”.
Il nome Selinunte deriva dal greco sélinon, che indica l’appio selvatico – riprodotto nelle sue più antiche monete – che cresce rigoglioso sulle rive dei due fiumi attorno alla città, il Modione e il Cottone. Intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., genti provenienti da varie località della Grecia approdarono in Sicilia; altre, già nel secolo precedente, erano giunte nell’Italia meridionale, a Cuma e a Ischia. In Sicilia si fermarono nella parte orientale, fondando, in un breve lasso di tempo, Naxos, Siracusa, Catania, Lentini, Megara Iblea. Quest’ultima, presso l’odierna Augusta, fu fondata dai Megaresi di Grecia, gli abitanti di Megara Nisea. Esattamente dopo cento anni dalla nascita della loro città, i Megaresi di Sicilia fondarono Selinunte sulla costa meridionale, guidati da Pammilo, intorno alla metà del VII secolo a.C.; mentre quasi contemporaneamente, i Calcidesi di Zancle (Messina) eressero Imera sulla costa settentrionale della Sicilia.

Ma perché i Megaresi per un verso e i Calcidesi per un altro si spinsero così lontano dalle loro città per fondarne altre? Si è sempre detto perché erano alla ricerca di luoghi che offrissero possibilità di praticare l’agricoltura e il commercio ma è possibile che lo abbiano fatto principalmente per fronteggiare la potenza cartaginese, che, proprio in quel periodo, affermava e consolidava la sua presenza in Sicilia e nel Tirreno, fondando, tra l’altro, Ibiza nelle Baleari.
Fu felice la posizione scelta dai Megaresi per la loro nuova città: la terra fertilissima e la presenza dei due fiumi forniva ampia possibilità di commerciare per mare. Selinunte divenne presto grande e potente, tanto da dominare per tutto il VI e V secolo la storia della Sicilia occidentale. Non ci sono dati precisi, ma si pensa, tenendo conto delle dimensioni del centro abitato e del numero delle necropoli, che gli abitanti, nel momento di maggiore floridezza, non potessero essere meno di 80.000.
Selinunte iniziò così un movimento d’espansione verso nord, causando un conflitto inevitabile con gli Elimi di Segesta e i Fenicio-Punici di Mozia; e in un secondo tempo, verso est, dove fondò Eraclea Minoa. Malgrado le continue lotte con Elimi e Punici, Selinunte mantenne spesso rapporti commerciali e anche politici con Cartagine, incrementando la prosperità di cui ancora oggi si notano gli effetti nelle molte e straordinarie costruzioni che si sono conservate. Mantenne buoni rapporti con Cartagine anche dopo la battaglia di Imera del 480 a.C., quando i Greci sconfissero i Cartaginesi. Questi buoni rapporti, però, non la salvarono dalla distruzione, inflittale dai Cartaginesi dopo una tremenda battaglia nel 409 a.C., che segnò la fine della sua potenza. Subito dopo, la città fu ripresa dal generale siracusano Ermocrate, che ricostruì le mura e la tenne per circa due anni. Ermocrate fu, poi, richiamato a Siracusa e la ricostruzione si fermò.
Dopo alterne vicende durate circa trent’anni, Selinunte, posta sulla linea di confine con i Punici, passò definitivamente sotto il dominio politico cartaginese. I cittadini scampati alla strage (Diodoro scrive che ne furono uccisi 16.000 e 5.000 fatti prigionieri e deportati) si ritirarono sull’acropoli e sulla collina orientale dove vissero modestamente per oltre un secolo, fino a quando, durante la prima guerra punica, intorno alla metà del III secolo a.C., i Cartaginesi distrussero quel che restava della città per non farla cadere in mani romane, e gli abitanti deportati a Lilibeo. Di Selinunte si perse anche il nome: la località veniva infatti indicata come Casale degli idoli. Solo nella metà del XVI secolo, il monaco domenicano Tommaso Fazello identificò correttamente l’antica città. Gli scavi archeologici ebbero inizio nel 1825 ad opera di due architetti inglesi, Harris e Angell, e da allora sono continuati quasi ininterrottamente, e continuano ancora oggi.
Un “museo d’architettura” era la Sicilia per Guy de Maupassant; un’esposizione “strana e divina”. Per lui la Sicilia aveva il primato, in Europa, delle pietre lavorate a dimora e monumento e a lui che con rituale devozione l’attraversò, nella primavera del 1885, la Sicilia si presentò come un teatro ammobiliato dalle pietre. Come una macchina teatrale, che era di pietra e sembrava dipinta. Come luogo d’incanti e di barocche sinestesie, da evocare a memento.
Per Maupassant, «l’architettura è morta, al giorno d’oggi, in questo secolo ancora artista, ma sembra aver perduto il dono di creare bellezza con le pietre, quel misterioso segreto della seduzione per mezzo di linee, quel senso di grazia nei monumenti. Sembriamo non comprendere, non sapere più che la sola proporzione di un muro può dare allo spirito la stessa sensazione di gioia artistica, la stessa emozione segreta e profonda di un capolavoro di Rembrandt, di Velasquez o di Veronese».
La Sicilia è tutta un trascolorare di scene costruite; che includono e inscenano, anche, memorie di eventi terribili e rovinosi: una sorta di quartiere antico della morte, più esteso ancora dello spazio che lo contiene. È il retroscena delle grandi cose che nel tempo avvennero, l’agonizzante deliquio della storia, l’interminato termine di pietre lasciate deperire.
Si può visitare Selinunte, immenso ammasso di colonne crollate, talvolta cadute allineate e affiancate, come soldati morti, talaltra precipitate caoticamente. Un esercito pietrificato, una guerra persa, una recita di un’apocalisse localizzata. Nel bagliore dolce e malinconico di una marina, tuttavia. E in un silenzio che dichiara solitudine. «Quelle rovine di templi giganteschi», scrive Maupassant, «le più vaste che esistono in Europa, riempiono una pianura intera e coprono anche una collina, all’estremità del piano. Esse seguono la riva, una lunga riva di sabbia pallida dove sono tirate a secco alcune barche da pesca, senza che, tuttavia, si riesca a capire dove abitino i pescatori».
Il silenzio del luogo è di sacra Tebaide. Vi si indovinano profumi selvaggi e aromi salsi, tra segni d’enigma e pace cimiteriale. Il paesaggio è tremolante. Una visione, forse; e un’allucinazione di poeti e di archeologi della non esistenza, perché quell’ammasso informe di pietre non può interessare, d’altronde, che gli archeologi o gli animi poetici, commossi da tutte le tracce del passato.
Sulla collina, un secolo prima di Maupassant, si era recato Houël, a dar sfogo ad una vocazione di archeologo misuratore e investigatore di rovine: «La seconda collina…ha…tre templi. Dal modo in cui le rovine del primo di questi templi sono disposte, si desume che esso è stato distrutto dall’uomo, in due diversi momenti, e non da un terremoto. Si riconoscono gli effetti degli attrezzi utilizzati per la demolizione. Le colonne che erano a sud della costruzione sono crollate verso l’esterno, quelle che erano a nord risultano rivolte parte all’interno, parte all’esterno…La pianta di questo tempio non presenta nulla di rilevante: il profilo è pressappoco simile a quello degli altri templi; la terra tutt’intorno alle rovine è coltivata». La descrizione di Houël accompagna una delle 264 tavole del suo Viaggio pittoresco nelle isole di Sicilia, Malta e Lipari e dà misura dei rocchi, scala di grandezza, sottolinea il contrasto di vita e di morte, di movimento e stasi. La vita appare sotto un’ala imperturbabile e il cielo sembra avere il peso e la gravità turbinosa di nuvole basse e di sfinita bellezza.
Le rovine di Selinunte fanno da frontespizio alle settecentesche Vues de la Sicilie del paesaggista tedesco Philipp Hackert e sono l’invito a entrare nella cronaca di un viaggio per immagini. Segni di dolore e di ira, splendori luttuosi, celebrazione marmorea delle rapine dell’uomo e della crudeltà della natura e delle sue forze, sono le pietre di Selinunte nell’inventario di inquietudini del Goethe che, dieci anni dopo Hackert, viaggia per l’Italia: «Tutto sommato non avevamo veduto nient’altro che vani sforzi degli uomini per resistere contro le violenze della natura, contro la perfidia maligna del tempo, contro il furore delle loro stesse discordie ed ostilità. Cartaginesi, Greci, Romani e non so quante altre razze dopo di loro hanno costruito e hanno distrutto. Selinunte è metodicamente devastata; per rovesciare i templi di Girgenti non sono bastati due millenni; sono bastate poche ore, per non dire pochi istanti, per distruggere Catania e Messina».
Selinunte evoca impressioni ed emozioni. È un immenso ammasso di colonne crollate, popolato da un sacro silenzio e dalla forza di un passato che rammenta l’ingegno e il furore dell’uomo, una memoria innamorata dell’antichità e di paesaggi abitati dal sogno. Quale stupendo spettacolo! Sette templi sono là, giacenti sotto il sole e dappertutto questi capitelli dorici, una delle più belle cose che l’uomo abbia mai inventato. In nessuna parte si può comprendere meglio che qui, i progressi di queste curve divine che arrivano alla perfezione. Ogni prova, ogni tentativo è visibile e, cosa più straordinaria di tutto il resto, quando i creatori di quest’arte meravigliosa ebbero realizzata la perfezione, non mutarono più nulla. Ecco il miracolo che i Greci soltanto hanno saputo fare: trovare l’ideale ed una volta trovato aderirvi pienamente.