L’edizione degli Oscar 2019 si presenta con alcune novità, direi nella forma più che nella sostanza. Per la prima volta dopo trent’anni la cerimonia di premiazione (che si tiene domenica 24 febbraio a Los Angeles) non avrà un presentatore o presentatrice, hanno tutti cortesemente declinato l’invito dopo le varie critiche, delusioni, gaffe e polemiche delle precedenti edizioni. I premi verranno semplicemente annunciati e assegnati uno dopo l’altro, con la sola interruzione degli stacchi pubblicitari. Su questo punto l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences aveva già fatto un bel capitombolo annunciando che due categorie fondamentali del mestiere e dell’arte del cinema, cioè fotografia e montaggio, sarebbero state premiate durante lo stacco pubblicitario appunto. Il fatto si commenta da sé. Naturalmente c’è stata una levata di scudi, una lettera ufficiale di protesta firmata da tutti i registi e direttori della fotografia e montatori più hot del momento e la cosa è rientrata in tempi brevi.
Altra novità è che la nomination come miglior film e anche per le altre categorie può andare anche a un film non in lingua inglese. E infatti quest’anno tra le candidature a miglior film c’è Roma di Alfonso Cuaron, e onestamente non poteva non esserci. Un’ulteriore novità è legata proprio a questo, cioè Roma è il primo film prodotto da Netflix ad essere candidato all’Oscar come miglior film (ma anche The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen è candidato per la miglior sceneggiatura non originale).

Infine, l’Academy prosegue nel suo percorso di apparente rinnovamento cominciato qualche anno fa. In seguito all’edizione degli Oscar 2015, dopo essere stata accusata di essere composta, per dirla senza troppi giri di parole, da troppi uomini, troppo bianchi e troppo vecchi, ha deciso di rinnovarsi un pochino, arruolando tra le sue fila centinaia di new entries, in particolare donne, giovani e afroamericani. Quest’anno qualche lieve spostamento nelle nomination si nota, ma rimane pur sempre una delle istituzioni più conservatrici e politicizzate nell’ambito del cinema e dello spettacolo in generale – non tirerei qui in ballo l’arte anche se a volte qualche film con straordinarie qualità artistiche ci scappa tra le nomination.

Resterà da vedere se il red carpet quest’anno sarà politico e consapevole come lo è stato l’anno scorso in pieno #MeToo, che aveva visto sfilare attrici in abito nero più o meno succinto e aveva assistito a dichiarazioni in diretta più o meno importanti rivelando, a mio avviso, come anche il #MeToo sia presto diventato un unico grande calderone che rischia di confondere accuse legittime e affermazioni fondamentali in un’industria in cui maschilismo e abusi (non solo sessuali) costituiscono l’unico sistema di potere praticamente da quando il cinema è nato con quello che è puro spettacolo o ulteriore occasione di esposizione mediatica.

Gli esperti di costume e società prevedono un red carpet misurato ma non politicizzato come lo scorso anno, un red carpet che torna timidamente a fare il red carpet, come lo aveva “inventato” negli anni Novanta quella grande donna di spettacolo che è stata Joan Rivers. Infatti il red carpet non è stato sempre così: negli anni Cinquanta e Sessanta il tappeto rosso era una passerella veloce e niente più. Poi con il tempo ha acquistato un po’ di glam ma è diventato il red carpet per eccellenza solo quando Joan Rivers, insieme a sua figlia Vanessa, nel 1995 con il suo Red Carpet Special ha dato vita a un evento che ha trasformato il senso del red carpet rendendolo spettacolo e meaningful in termini di moda prima di tutto ma anche di affermazione di sé (quanto alle star) e affermazione politica (quanto allo spettacolo degli Oscar tour court).
La Rivers, consumata attrice, produttrice, comica, presentatrice, scrittrice, ha aggiunto al red carpet un elemento fondamentale, la competizione. “Who are you wearing?”, chiedeva alle attrici in passerella, ed ecco che lo stilista è diventato cruciale, il commento sugli abiti imprescindibile, e il giudizio sulla scelta dell’abito e sull’abito in sé da prettamente estetico è diventato molto di più. Può sembrare banale, ma è stata una vera rivoluzione nell’ambito della cerimonia degli Oscar e ora, dallo scorso anno, siamo forse nel primo momento di trasformazione del significato del red carpet. Potrebbe essere la questione del genere a dominare il red carpet, forse non accadrà subito ma potrebbe essere questa la prossima affermazione politica della passerella più famosa del mondo.
Una curiosità (se i redattori del New Yorker hanno fatto bene come immagino il loro lavoro): a parlare per la prima volta di “tappeto rosso”, o per la precisione di tappeto scarlatto, è stato Eschilo nella sua tragedia Agamennone, nel 458A.C.. Per esserne certi però, non rimane che andare a leggersi o rileggersi l’Agamennone.
Per adesso, in attesa di questa 91a cerimonia degli Oscar, non possiamo far altro che dedicarci ai pronostici e alle probabilità. Chi vincerà quest’anno nelle varie categorie?

Sul sito ufficiale degli Oscar si possono trovare tutte le nomination.
Qui posso provare a indicare chi, nelle categorie principali, potrebbe vincere e chi, secondo la mia personalissima opinione, dovrebbe vincere. E anche chi, sempre secondo la mia personale opinione, avrebbe dovuto esserci tra le nomination invece è stato clamorosamente ignorato dall’Academy (ce ne sarebbero molti).
Film:
Potrebbe vincere secondo Academy, industry (leggi: Hollywood) e pubblico: Bohemian Rhapsody
Dovrebbe vincere secondo me, è la mia opinione personale ma solidamente motivata: Roma
Avrebbe dovuto esserci ma è stato ignorato dall’Academy: The Rider
Regista:
Potrebbe vincere: Spike Lee (BlacKkKlansman)
Dovrebbe vincere: Alfonso Cuaron (Roma)
Manca: Lynne Ramsey (A Beautiful Day – You Were Never Really Here)
Attrice protagonista:
Potrebbe vincere: Glenn Close (The Wife)
Dovrebbe vincere: Melissa McCarthy (Can You Ever Forgive Me?)
Manca: Eva Melander (Border)
Attore protagonista:
Potrebbe vincere: Rami Malek (Bohemian Rhapsody)
Dovrebbe vincere: Christian Bale (Vice)
Manca: Ethan Hawke (First Reformed)
Attrice non protagonista:
Potrebbe vincere: Regina King (If Beale Street Could Talk)
Dovrebbe vincere: Regina King (If Beale Street Could Talk)
Manca: Margot Robbie (Mary Queen of Scots)
Attore non protagonista:
Potrebbe vincere: Mahershala Ali (Green Book)
Dovrebbe vincere: Richard E. Grant (Can You Ever Forgive Me?)
Manca: Brian Tyree Henry (If Beale Street Could Talk)
Sceneggiatura originale:
Potrebbe vincere: Brian Hayes Currie, Peter Farrelly, Nick Vallelonga (Green Book)
Dovrebbe vincere: Paul Schrader (First Reformed)
Manca: Chloé Zhao (The Rider)
Sceneggiatura non originale:
Potrebbe vincere: Charlie Wachtel & David Rabinowitz and Kevin Willmott & Spike Lee (BlacKkKlansman)
Dovrebbe vincere: Joel & Ethan Coen (The Ballad of Buster Scruggs)
Manca: Lynne Ramsay (A Beautiful Day – You Were Never Really Here)
Fotografia:
Potrebbe vincere: Lukasz Zal (Cold War)
Dovrebbe vincere: Alfono Cuaron (Roma)
Manca: Brandon Trost (Can You Ever Forgive Me?)
Montaggio:
Potrebbe vincere: Hank Corwin (Vice)
Dovrebbe vincere: Hank Corwin (Vice)
Manca: Lisa Zeno Churgin (The Old Man and the Gun)
Film in lingua straniera:
Potrebbe vincere: Cold War
Dovrebbe vincere: Shoptlifters
Manca: Border
Documentario:
Potrebbe vincere: RGB
Dovrebbe vincere: Free Solo
Manca: Monrovia, Indiana
Ma staremo a vedere cosa accadrà il 24 febbraio, conferme e sorprese… Personalmente, sono delusa da una cerimonia degli Oscar senza host, mi sarebbe piaciuto avere un John Oliver a presentare la cerimonia degli Oscar con il suo sarcasmo intelligente e irriverente, naturalmente Tina Fey, o anche l’irresistibile Alec Baldwin travestito da Trump, più vero delll’originale; per richiamare lontani ricordi di tragedie greche, questi tempi più di altri si addicono infatti alla satira.
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