La Valle Reatina si trasforma in un Ecomuseo della Protostoria. Un progetto innovativo che lega la ricerca archeologica alla valorizzazione turistica del territorio. Il Museo diffuso coinvolge due regioni (Lazio e Umbria) e i comuni di Colli sul Velino, Rivodutri, Morro reatino, Poggio Bustone, Cantalice, Rieti e Terni.
Nel dettaglio, a Colli sul Velino è già operativa una Foresteria per studenti e ricercatori, Rivodutri ha acquistato una casa cantoniera che, una volta ristrutturata, ospiterà la sede museale centrale, Labro punterà sull’aspetto didattico-turistico (mettendo a punto sulle sponde del Lago di Piediluco un progetto per la navigabilità, comprensivo di un info-point a forma di capanna protostorica), mentre sempre sulle sponde dello stesso lago, nei pressi di un altro sito protostorico, verrà ricostruita nei minimi dettagli una capanna con finalità didattiche.
Il comune di Poggio Bustone ha in programma di realizzare un piccolo parco archeologico, nel quale ricreare usi e costumi della vita quotidiana di questi ‘aborigeni’ (nei suoi scritti lo storico Varrone parla della esistenza di popolazioni aborigene, poi conquistate dai Sabini).
Rieti sarà capofila di tutto il sistema. A Campo Reatino, a ridosso dell’area nella quale è stata rinvenuta una necropoli dell’Età del Ferro, c’è in programma di istituire un parco archeologico vero e proprio.
A lavorare sul posto, dal 2011, i tirocinanti archeologi della Università di Roma la Sapienza (Dipartimento di Antichità – Cattedra di Topografia del professor Alessandro Jaia) guidati dall’archeologo Carlo Virili.
Uno staff di grande livello visto che, anche grazie allo scavo iniziato nel 2017 su Paduli (località che si trova nel comune di Colli sul Velino), per la prima volta nella sua storia ha visto l’Università La Sapienza nominata ‘prima al mondo’, per la sezione antichità classiche, da QS (uno dei ranking accademici più prestigiosi) soffiando il titolo anche alla Harvard University, alla University of Oxford, e alla University of Cambridge.
È come dire che a Rieti sono sul campo i migliori ‘operatori’ del settore. Due i progetti finora promossi: “Prima dei Sabini”, concluso nel 2015, ha avuto come oggetto di scavo la necropoli di Campo Reatino, realizzata in epoca congruente (IX° secolo a. C.) con l’inizio dell’aspetto culturale sabino, peraltro ancora sconosciutissimo, e l’obiettivo di trovare indizi chiari sulle origini dei Sabini. Dal 2017 è partito invece il secondo progetto di scavo (quinquennale) sull’area protostorica di Paduli, denominato “Prima dei Sabini”.
«Ci auguriamo che anche gli amministratori locali credano, come noi, nelle risorse culturali dei loro territori», spiega Virili. «Anche grazie a Paduli abbiamo ottenuto questo importante riconoscimento, dal momento che il Dipartimento lo ha inserito tra i suoi scavi considerati d’eccellenza».
Sui risultati ottenuti a Campo Reatino Virili non si sbilancia, o meglio risponde varie volte con un “ni”, segno che la ricerca dovrà essere ancora approfondita.
«Perché di fatto – precisa – nel nucleo più antico, un piccolo sepolcreto ascrivibile al IX° secolo, c’è un qualcosa di locale, che potremmo chiamare proto-sabino (forzando un po’), insieme a espressioni, quali per esempio le urne a capanna, tipiche delle fasi più antiche della cultura dei primi latini. Alcuni frammenti d’impasto (anforette) del VI° secolo a.C., sono invece chiaramente sabini e trovano confronti puntuali con la necropoli di Poggio Sommavilla. Con proto-sabino identifico una fase di preparazione, una sorta di melting pot. Da una facies locale (che proviamo a chiamare proto-sabina) potrebbe essersi formato cioè man mano l’ethnos sabino, attraverso l’influenza e l’apporto di variegate influenze culturali esterne, tra cui anche quella dei latini».
È un po’ come dire che prima del VI° secolo di evidenze chiare, ascrivili ad una facies sabina, non è stato ancora rinvenuto nulla.
Ma cosa ha di particolare Paduli, dove si sono trasferite tutte le attività di scavo? «’Prima dei Sabini’, in realtà, lega tutto il territorio, perché è il momento principe, l’anno zero in cui possiamo cominciare a parlare qui di popolamento stabile, è proprio la protostoria», ci dice Virili.

«La Piana reatina (o Velina) per la verità è stata già in passato oggetto di numerose ricognizioni di superficie. In particolare in questa località (Colli sul Velino), una primissima esplorazione sugli argini del Lago Velinus fu effettuata dal professore Carancini dell’Università di Perugia nel 1930, il quale tornò sul posto dal 1983 al 1985. Nel 1992 la British School effettuò un nuovo accertamento e altre due campagne sono state condotte negli inverni 2011/2012 e 2012/2013 proprio dal Dipartimento di Antichità della Sapienza – Università di Roma».
Il sito è databile al 1200 a. C., tarda età del bronzo, ed è inoltre il più importante per durata (tracce di insediamento ci sono fino all’età del Ferro), per dimensione, per organizzazione dell’insediamento, per quantità e varietà di reperti ceramici.
La fertilità del terreno e la presenza di acqua, ma anche la posizione topografica (Paduli è al centro di un crocevia strategico tra la conca reatina tramite il Fosso di Vallagora, l’area di Monteleone di Spoleto tramite il Fosso di Leonessa, la Valnerina tramite la Forca dell’Arrone), potrebbero averne favorito lo sviluppo tanto da essere individuato da alcuni studiosi, come capoluogo d’area, una città più o meno grande come la Rieti odierna.
La produzione ceramica delle fasi iniziali sembrerebbe indicare collegamenti con l’ambiente medio – tirrenico (facies di Grotta Nuova e di Cetona), nelle fasi più tarde del Bronzo finale e i primi inizi dell’età del Ferro con ambiti di regioni interne ed adriatiche.
I reperti individuati nelle rilevazioni del Carancini, e confermati da quelle dello staff di Jaia, sono vasellame di tipo domestico e alimentare, ma anche strumenti per filatura e tessitura, spade, asce e finiture per cavalli.
In generale, il rinvenimento di manufatti di bronzo e la loro lavorazione, in zone considerate interne (povere), era una rarità, ma anche l’ambra, gli ornamenti realizzati in vetro colorato, l’avorio, sono indicatori di una civiltà evoluta.
Paduli sembra essere inserita in un contesto internazionale e averne la capacità, dunque una struttura sociale complessa, con figure in grado di gestire sia i traffici commerciali, sia di poter produrre e creare (artigianato).
La possibilità di nuove scoperte sarà senz’altro favorita da un approccio di studio non di tipo tradizionale, un’altra novità nella novità. Per la prima volta si sarebbe adottato un metodo di indagine multidisciplinare. Ma cosa vuol dire nel concreto? «Che non ci fermiamo all’esame del coccio», continua Carlo Virili. «Questa metodologia rende possibile una ricostruzione del tipo di vita, di economia, di ambiente, anche attraverso lo studio di resti faunistici e botanici microscopici. La Valle Reatina offre una straordinaria possibilità: il limo, creando un tappo, ha permesso la conservazione dei materiali organici e io la considero davvero come una Pompei ante-litteram. Il lavoro svolto sul campo è minuzioso, capillare: all’interno di una maglia di quadrati i ragazzi prelevano i materiali, li setacciano, lavano, fotografano, disegnano, un quarto del deposito neanche viene setacciato, ma spedito direttamente al laboratorio».
Qui a Paduli sono operative, con la Sapienza, l’Università di Bologna per l’Archeozoologia, la Federico II di Napoli per l’Archeobotanica, il CNR di Roma per la sedimentologia (studio dei sedimenti).
E di siti protostorici ancora da studiare ve ne sarebbero una enormità (di fatto il territorio è quasi del tutto inesplorato). Qui le condizioni per poter ospitare una serie di villaggi prossimi ad ambienti umidi, ma non proprio lacustri (il grande lago si era in parte prosciugato), erano ottimali.
Grazie a ricognizioni a tappeto, finalizzate anche alla creazione di carte archeologiche (esposte presso la Foresteria), l’équipe di Virili ne avrebbe individuati almeno 40, a partire dal 2000 a.C. e fino al 750 a.C..
Ma che tipo di popolazione viveva in questa valle? Identificare il gruppo etnico con un nome è difficilissimo. «Non lo sappiamo – continua l’archeologo – in periodi così antichi non si usava il media scrittura, ma altri metodi per comunicare. Potremmo dire che gli aborigeni fossero uguali a questa gente qui, sempre forzando col termine aborigeni, per dargli un nome. Alcuni storici e studiosi ritenevano fossero colonizzatori di origini greche, ma ormai l’idea del diffusionismo su base linguistica si è attenuata, tanto da essersi ridimensionato lo stesso mito degli indeuropei, inteso come migrazioni di massa. Oggi si è più propensi nel credere all’influenza degli scambi commerciali a lunga distanza e meno alle grandi migrazioni di massa, il veicolo di cambiamento culturale sarebbe meglio rappresentato da oggetti di prestigio che viaggiano in circuiti commerciali, o da insediamenti più modesti».
Come viveva una famiglia di Paduli? «Dato che nella preistoria non esisteva il calcestruzzo è difficile far comprendere all’interlocutore medio l’importanza e la natura di questi ritrovamenti. A un profano ‘quattro buche di palo’ non dicono nulla», spiegano i giovani archeologi. «Per noi invece è il chiaro segno dell’esistenza di una capanna, un termine usato di solito in maniera dispregiativa, ma che in realtà indica vere e proprie abitazioni. Nel 2017 abbiamo iniziato a scavare nell’area esterna all’abitato (riprenderemo ad agosto 2018). Le passerelle in legno e la loro strutturazione ci hanno permesso di ricostruire una serie di pavimenti a griglia in cui il cordino era rappresentato da assi lignee (rinvenute intatte) e al cui interno erano collocati materiali di scarto (cocci, ossia ed altro). Probabilmente spostandoci verso il fosso potremmo trovare i resti della capanna, la cui presenza è peraltro attestata anche dalla esistenza di un forno».
L’agricoltura (si ipotizza una produzione cerealicola estensiva) ma anche l’allevamento e la pastorizia appaiono come le attività primarie di Paduli e qui Virili apre una parentesi per rivalutare la figura e il ruolo del pastore. I pastori, spiega, erano veri imprenditori o re che possedevano centinaia di migliaia di capi, e proprio la transumanza sarebbe stata il principale vettore degli aggiornamenti culturali.
Ma i reperti che, senza dubbio risveglieranno la curiosità di studiosi a livello internazionale sono due anse di vaso davvero particolari: la prima a forma di uccello acquatico (Paperella), la seconda, antropomorfa, si configura come un unicum nel panorama archeologico mondiale.

«L’ansa a forma di paperella è importante perché conferma una condivisione religiosa che rimanda ad una sorta di unità ideologica centro-europea e anche, per certi aspetti, mediterranea, una unità religiosa di un’Europa ante-litteram (l’uccello, nella protostoria, è usato come tramite tra umano e divino – psicopompo). Siti di questo genere possono conservare gli elementi originari dei miti poi rielaborati dalla grecità, miti che attestano una grande unità religiosa dell’Europa centrale e mediterranea. Insomma, se vogliamo trovare, dietro a espressioni come questa, gli Indeuropei, a Rieti, a Paduli, senz’altro li abbiamo trovati», afferma il responsabile degli scavi, senza celare l’entusiasmo.
Virili e la sua équipe mostrano anche dell’ambra, ornamenti di vario genere (spille fibule), e un’ascia utilizzata per il taglio gli alberi, con alette laterali per l’immanicatura tipica di zone del Nord Italia ed Europa. Il rinvenimento a Paduli di materiali simili a quelli rinvenuti, verso la fine del 1800, in una zona più vicina a Piediluco, è importante in quanto confermerebbe, in loco, una esplosione della metallurgia intorno al 1200 a.C.
L’ansa a forma di figurina antropomorfa chiude il nostro viaggio ‘nella protostorica città di Paduli’. «Non ci troviamo più di fronte a un uccello, ma a un animaletto (ha già le due braccia, ma soprattutto una cresta che potrebbe far pensare a capelli raccolti in una treccia). I segni possono rimarcare o le costole, o le muscolature, oppure un corpetto. Chissà, poteva essere una immagine guerriera, o funzionare addirittura come un idoletto. Insomma tale reperto inizia a essere davvero un unicum, un pezzo raro, per il quale non riesco a trovare confronti», spiega l’archeologo.
Le recenti scoperte si intrecciano poi con un’ipotesi linguistica che potrebbe aprire nuovi scenari. Il linguista Angelo Di Mario (originario di Rieti), i cui studi sono ospitati presso la Biblioteca Consortile di Viterbo e messi a disposizione per studenti della Università di Viterbo e studiosi, negli Anni Settanta lanciò una pillola linguistica originale ma che sembra essere non così singolare visti i recenti ritrovamenti di Paduli. “La pianura reatina, più si va indietro nel tempo, più si configura con un maggior numero di laghetti a poco a poco prosciugati dall’accumulo dei detriti”, spiegava Di Mario in uno dei suoi articoli editi sulla Lingua dei Sabini.
“L’etimo RIeti potrebbe proprio derivare da REFote/REFate/REate (luogo, città dei laghi) laddove la radice RE indica acqua di derivazione dal greco REoo, Reuma e dialettale REFote”. Una affermazione che sembrerebbe calzare con la realtà di Paduli, ma che suggerirebbe anche l’esistenza di popolazioni retiche in loco, con le loro ritualità. Ricordiamo che per i Reti Rezia, o Reitia, è considerata la dea per eccellenza. Come ogni dea madre che si rispetti, a Reitia era sacro l’elemento dell’acqua, anch’esso simbolo di fertilità e vita: non a caso tutti i templi a lei dedicati si trovano nei pressi di fiumi o ruscelli.
I suoi simboli sono la chiave, ma anche l’anatra e il lupo mite. “Chissà se la dea REzia dei Reti, una VENere dal verbo REoo, non abbia a che fare con questa zona, con la Piana di Rieti”, si chiedeva infatti sempre Di Mario, ricordando che alcuni storici hanno accomunato i Reti agli etruschi e REzia ai RAsna. “D’altra parte anche il termine TURano (fiume che attraversa il reatino), per la radice RI, parrebbe propendere per un qualche contatto con i Reti, ipotesi da verificare sia con ritrovamenti archeologici, che con nuovi apporti linguistici”.
Insomma la strada sarà piena di sorprese in grado di riscrivere forse una storia diversa, sempre che la ricerca proceda senza ipotesi precostituite e chiuse ad apporti scientifici (anche non accademici) ed ampliando l’approccio interdisciplinare, per esempio esempio all’antropologia e alla linguistica.