È un dato di fatto che le giurie dei grandi festival internazionali seguono, nell’assegnazione dei premi, logiche imprevedibili e impossibili da schematizzare. A volte capita perché non hanno, complessivamente, una visione del cinema sufficientemente ampia e adeguata al ruolo, altre volte addirittura per implicazioni personali o produttive con autori e opere che si trovano a giudicare: i giurati, insomma, finiscono spesso per non premiare il film migliore. Ci è capitato altre volte, in particolare alla Berlinale, di dover “leggere” il verdetto di una giuria con lenti politiche: il verdetto come messaggio, insomma, se premiare un film diventa – anche legittimamente – un modo per affermare qualcosa di urgente o per dare risalto a una questione importante. Il verdetto di questa Berlinale numero 68, firmato dalla giuria presieduta da Tom Twyker (regista di “Lola corre” e deus ex machina del recente “Babylon Berlin”) invece, appare totalmente indecifrabile: non uno, ma ben due premi a uno dei film più fastidiosi del concorso internazionale (per la verità quest’anno particolarmente modesto), il semi-documentario “Touch Me Not“ della romena Adina Pintilie, che oltre all’Orso d’oro si aggiudica anche il premio per la migliore opera prima. Si tratta di un film sperimentale, attraverso cui la regista cerca di raccontare l’essenza dell’intimità e del piacere seguendo con sguardo entomologico alcuni personaggi, i loro tabù, i loro blocchi e le loro perversioni. Nudità esibita senza vera capacità di provocare, una fastidiosa rappresentazione estetizzante della deformità, una messinscena leccata, finta, artefatta, estenuante, cui si sommano una prospettiva psicoanalitica del trauma puerile e scontata e l’esigenza narcisistica della regista stessa di mettersi davanti alla macchina da presa per confessioni in cui non si intravede mai un briciolo di verità: nulla, nel film di Pintilie, lascia intravedere le ragioni di una premiazione così abbondante.

Purtroppo per il dimissionario direttore Dieter Kösslick – sotto accusa per la scarsa valorizzazione del movimento teedeesco, concluderà la sua direzione della Berlinale con l’edizione 2019 – il cinema di casa rimane all’asciutto, pur avendo presentato in concorso ben quattro film, dei quali almeno uno (“In der Gängen”, di Thomas Stuber, ispiratissima storia d’amore tra corridoi e muletti di un ipermercato) meritevole di ambire a un premio importante. Va detto che il più atteso dei quattro, “My Brother’s Name Is Robert And He Is An Idiot” di Philip Gröning, è risultato a conti fatti una delle opere più deludenti e peggio riuscite dell’intera rassegna.

Detto dello sconcertante gradino più alto del podio e del cinema tedesco, passiamo alle piazze d’onore, che sono invece occupate da opere decisamente più interessanti: il premio speciale della giuria va meritatamente a “Twarz“ di Małgorzata Szumowska, caustico ritratto della società polacca a partire da un trapianto di faccia cui si sottopone un giovane metallaro vittima di un incidente sul lavoro; miglior regia a “The Isle of Dogs“ di Wes Anderson, film d’apertura del festival ed efficace metafora politica del primo anno di amministrazione Trump; doppio orso d’argento, invece, per il bellissimo film paraguayano “Las Herederas”, dell’esordiente Marcelo Martinessi, storia di un’anziana donna che, benestante per l’intera vita grazie a un’eredità, viene colpita dalla crisi e dalla depressione e, quando la sua compagna viene incarcerata per tre mesi per un debito non saldato con la banca, si trova a guadagnarsi da vivere facendo la tassista per le facoltose vicine di casa. Oltre alla migliore sceneggiatura, l’Orso d’argento va a premiare la straordinaria protagonista Ana Brun, che dal palco del Berlinale Palast dedica il premio alle donne paraguayane, definite “guerriere”.
A bocca asciutta l’Italia, che presentava in concorso “Figlia mia” – opera seconda di Laura Bispuri, film imperfetto e un passo indietro della regista romana rispetto all’esordio di “Vergine giurata” – e nella sezione Panorama il discredo esordio di Damiano e Fabio D’Innocenzo, gemelli registi, che realizzano con “La terra dell’abbastanza” un’opera prima un po’ presuntuosetta, ben girata ma con una scrittura non sempre all’altezza, ambientata nella problematica periferia di Roma.

Al di là dei premi, difficile inquadrare questo festival. Un concorso mediocre, come detto, con pochissime eccellenze (oltre a “Las Herederas”, degno di menzione forse il solo “Dovlatov” di Aleksej German Jr. e l’anomalo musical a cappella di Lav Diaz, “Season of the Devil”, tanto bello quanto esigente) e un’insolita, per Berlino, difficoltà a ravvisare un tema chiave. Certo, rimane un festival che ha il pregio di guardare sempre con grande attenzione, attraverso i film scelti, agli ultimi del mondo, ai flussi migratori e alle masse indigenti, scegliendo sempre una prospettiva umanistica con cui non si può che entrare in sintonia. Tuttavia, la Berlinale,, più e meglio di altri festival si è sempre mostrata, a fine rassegna, quasi come un testo dal senso omogeneo, di cui i film sono tanti capitoli. Quest’anno difficile ricomporre i pezzi, tra i molti temi trattati, nessuno in modo preponderante, niente provocazioni, niente prospettive originali. Anche questo, forse, è un modo di dare un ritratto del mondo in cui viviamo.