Nel presentarvi questa settantesima edizione del festival di Cannes, avevo rimarcato le polemiche suscitate dalla selezione – in concorso – di ben quattro film prodotti nel segno delle nuove modalità di fruizione, due da Netflix e due da Amazon Studios. Le polemiche, come noto, nascono soprattutto dalle politiche di Netflix, considerate “aggressive” e irrispettose, che dopo il passaggio festivaliero pare intenzionata a far saltare ai film lo step della sala per erogarli immediatamente dal web.
Pronti, via e ci ha pensato Pedro Almodovar a gettare benzina sul fuoco, con un intervento quantomai inopportuno e inutile: “Le nuove piattaforme digitali devono rispettare le regole. Sarebbe un paradosso che un film che vince la Palma d’oro non venga visto in sala”, ha detto il regista spagnolo, presidente di giuria del concorso, quasi a lasciar intendere che i due film Netflix non saranno presi in considerazione dai giurati. Parole prive di logica, innanzitutto per il ruolo che Almodovar riveste, chiamato a coordinare i lavori di una giuria che si suppone guardi, valuti e giudichi esclusivamente il valore artistico delle opere presentate senza badare alle traiettorie che esse seguiranno quando i riflettori di Cannes 70 si spegneranno. In secondo luogo, sono parole che mostrano, ahimè, l’incapacità preoccupante di una generazione di addetti ai lavori e blasonati cineasti di andare al di là di stereotipi e di ammuffite battaglie ideologiche per cercare di comprendere la complessità dello scenario produttivo e distributivo attuale, proprio quella complessità colta pienamente dal direttore Thierry Fremaux e dal suo team da ormai sedici anni a questa parte.
Le sciocchezze di Almodovar lasciano, per fortuna, spazio ai film. E qui il discorso prende una piega differente, purtroppo un po’ deludente in queste prime battute.
Concorso – Wonderstruck, di Todd Haynes
Ecco la prima produzione “maledetta”, anzi, semi-maledetta. Amazon Studio è infatti più rispettoso della prassi, co-produce e manda in sala prima dell’approdo a Prime Video.
Al di là del suo destino prossimo venturo, Wonderstruck è però un film deludente.
Todd Haynes, che ha una filmografia esigua ma di qualità altissima e molto coerente sia sul piano estetico sia su quello tematico, gira un film un po’ slegato da tutto quanto ha fatto fino a ora, con una prospettiva “ad altezza di Bambino” che però non suona molto nelle sue corde.
Il film racconta due storie in parallelo: nell’anno 1977 c’è Ben, ragazzino orfano che rimane sordo per un fulmine, scappa dal Minnesota e raggiunge New York; nel 1927 Rose, ragazzina sordomuta del New Jersey, raggiunge la Grande Mela in cerca della sua attrice preferita. La prima vicenda è raccontata con colori, musica e Seventies. Il secondo è in bianco e nero e muto. Il legame tra le due storie è il “mistero” che, accanto a Ben, cercheremo di scoprire.
Tratto da un romanzo di Brian Selznick (che separava le due storie raccontandone una, quella di Rose, con illustrazioni), Wonderstruck è un film impeccabile calligraficamente, ma terribilmente freddo, una sontuosa cornice in cui pare, spesso, mancare il contenuto. Un film che frana anche sul piano drammaturgico, con continui e pesantissimi “spiegoni” e ricapitolazioni che nuocciono alla compattezza dell’insieme.
Concorso – Jupiter’s Moon, di Kornél Mundruczó
Che peccato quando il talento, invece di arricchire un’opera d’arte, la stritola e la seppellisce. L’ungherese Kornél Mundruczó, che qui aveva vinto Un certain regard tre anni fa, di talento ne ha da vendere. Anche le idee non mancano: White God, che lo ha lanciato qui sulla Croisette nel 2014, raccontava con realismo straniante una rivolta di cani che arrivava a controllare Budapest. Oggi, data la deriva fascio-xenofoba del suo paese, Mundruczó prende di petto il dramma dei migranti respinti e trattati inumanamente al confine con la Serbia. L’idea geniale e spiazzante è che uno di questi migranti, un giovanotto siriano, colpito da una raffica di pallottole, sviluppi una capacità quantomeno singolare: può volare. Da qui il film racconta il rocambolesco sodalizio tra il giovane siriano e il dottor Gabor, sprofondato nell’inferno dei centri di accoglienza perché ha un senso di colpa enorme da emendare.
Il fatto positivo di questo film è che ci riapre gli occhi sulla realtà in un modo molto particolare: un po’ I figli degli uomini, un po’ Blade Runner, ha un piglio da fantascienza distopica; a ben vedere, però, l’unico elemento che non turba è proprio il “siriano volante”, cioè l’unico aspetto ‘fantastico’. Tutto il resto è drammaticamente vero: mala tempora cucurrunt.
Purtroppo, accettate con curiosità idea narrativa e atmosfera, la struttura della storia si accartoccia sotto il peso di una regia veramente troppo ingombrante, che divora ogni cosa a colpi di piani sequenza vorticosi e di virtuosismi esasperati.
Concorso – 120 Battements par Minute, di Robin Campillo
L’associazione ActUp, fondata alla fine degli anni ’80 negli Stati Uniti da esponenti del movimento per i diritti GLBT, ha avuto un impatto fondamentale nel quadro della sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’epidemia di AIDS, il virus che segnò gli ’80 e i ’90 il mondo occidentale. Tra i paesi europei, la Francia fu quello in cui il movimento fu più attivo, vuoi per le ambiguità del presidente Mitterrand rispetto al movimento GLBT, vuoi per lo scandalo del sangue infetto, che nel 1992 fece tremare il sistema politico francese.
Il regista e sceneggiatore Robin Campillo – autore degli script di tre bellissimi film di Cantet, L’Emploi du temps, Vers le sud e Entre les murs – scrive e dirige un potentissimo dramma ambientato proprio all’interno di ActUp, un bellissimo film che é al tempo stesso tre cose: una storia d’amore, un intelligente e originale riflessione sulle modalità di lotta del movimento GLBT e un film a tesi sulla portata storica di tali lotte.
La vicenda d’amore è quella tra Sean e Nathan, perfettamente calata nel difficile contesto dei primi anni ’90, tra gli aspri pregiudizi e l’incubo della sieropositività.
Sul piano sociale, il film, invece, apre con intelligenza una domanda molto forte e senza risposta: che cosa è più utile per una battaglia sui diritti, la radicalità provocatoria che rasenta il folclore il calcolo della moderazione? E soprattutto insinua il dubbio che le forme più radicali possano servire maggiormente a cementare internamente una minoranza, rafforzando il senso d’appartenenza dei propri aderenti e lenendo la loro solitudine.
L’intuizione storica è quella più interessante: la battaglia del movimento LGBT negli anni Novanta viene paragonata ai moti europei del 1848, per una simile carica rivoluzionaria nell’aprire la prospettiva con cui la società si auto-percepisce.
Quinzaine des Réalisateurs – A Ciambra, di Jonas Carpignano
Con Mediterranea, Jonas Carpignano aveva sorpreso il pubblico festivaliero di Cannes 2015, dove era approdato nella selezione della Settimana della critica.
Oggi, due anni dopo, il giovane regista italo-americano porta alla Quinzaine un film bellissimo, che è semplicemente la miglior cosa vista in questi primi due giorni di Cannes 70.
Al centro della storia, ancora una volta il volto del piccolo Pio Amato, che già in Mediterranea bucava lo schermo con una facilità impressionante.
Questa volta la storia è proprio quella della famiglia zingara di Pio, della voglia matta del ragazzino di diventare adulto in fretta, desiderio contrastato dal suo bisogno intimo di innocenza, di amicizia e di protezione. I due “estremi” anagrafici della famiglia sono rappresentati da Pio e dal nonno, custode degli antichi valori del popolo gitano: il nomadismo come desiderio di libertà, la volontà ferrea di non assoggettarsi a nessuno, la vita nella natura. La famiglia Amato, ora, è lo specchio della trasformazione di questi valori, che invece sembrano averla cristallizzata in una dipendenza ineliminabile dalla criminalità organizzata, dalla Ndrangheta nella fattispecie. Così Pio deve scegliere tra l’amicizia sincera di un africano ospite del famigerato centro di Rosarno o la permanenza nel degrado della Ciambra, quartiere malfamato di Gioia Tauro.
Sospeso tra fiction e documentario, il film di Carpignano rimane in un equilibrio che a tratti ha del miracoloso. La naturalezza che il giovane autore è riuscito.a ottenere dai suoi attori non protagonisti lascia a bocca aperta, consentendo l’immersione in un mondo che troppo spesso ci si limita a disprezzare, rinunciando a comprenderlo.
Carpignano è inoltre un narratore dotato di una leggerezza unica: la sua camera a mano è bellissima, segue i personaggi, vive e respira con loro, e il suo tocco consente momenti altissimi di poesia lirica che si aprono nel mezzo del degrado lo scenario quasi da fall-out del quartiere della città calabrese.