La prima volta è stata l’anno scorso e già ha il sapore di una piccola tradizione: andare a casa di Mario Fratti una domenica mattina di primavera, incontrare il vincitore del premio a lui intitolato, chiacchierare nel suo salotto pieno di memorabilia e ragionare sulla funzione del teatro e dello scrittore, ricordare i grandi del passato, scovare le promesse del futuro. La nostra piccola tradizione è una doppia intervista a Mario Fratti (cui quest’anno il festival è stato dedicato, in occasione dei suoi prossimi novant’anni) e al vincitore del premio istituito all’interno del festival di teatro italiano a New York, In Scena!.
Quest’anno a vincere è stato Paolo Bignami con Il paese delle facce gonfie. Il testo, nella traduzione di Carlotta Brentan (col titolo The Country of Swollen Faces), viene presentato al pubblico dell’Istituto italiano di cultura con una reading dell’attore Joseph Franchini, durante la serata di chiusura del festival, lunedì 15 maggio. E in anticipazione della serata, La Voce di New York, media partner del festival, presenta ai suoi lettori questo nuovo talento teatrale, in un ping pong di domande e risposte che raccontano due generazioni e due modi di fare teatro, sulle due sponde dell’oceano.
Che cos’è il teatro per te?
Mario Fratti: “Un’arma. Il teatro deve essere usato dagli scrittori per denunciare le cose che non funzionano nel mondo e indicare come correggerle”.
Paolo Bignami: “Uno strumento per la società per mettersi allo specchio, per vedersi meglio e magari più in profondità di quelle che si riesce a vedere tutti i giorni”.
Quindi il teatro è specchio della realtà più che evasione?
MF: “Specchio della realtà, mai evasione”.
PB: “Penso che oggi il pubblico senta il bisogno di evasione però credo sia importante riuscire a riflettere sui problemi in modo piacevole. Il teatro può essere impegnato ma allo stesso tempo anche leggero, affrontare grossi problemi in modo godibile”.
Quando ti metti a scrivere a quale istinto o necessità rispondi? Cos’è che ti fa sedere alla scrivania e creare una situazione?
MF: “Ripetere il mio credo, ovvero che uno scrittore ha l’impegno morale di descrivere il mondo per migliorarlo”.
PB: “Da un certo punto di vista scrivere, mettere su carta i problemi che vedo nel mondo, fa bene innanzitutto a me. Ma allo stesso tempo cerco di trovare temi che possano essere condivisi anche da altri. E lo stimolo sono certamente le problematiche che vedo nella vita di tutti i giorni”.
Che qualità imprescindibile deve avere un drammaturgo?
MF: “Altruismo. L’altruismo è la forza che spinge lo scrittore a voler descrivere il mondo per migliorarlo”.
PB: “La capacità di svelare qualche cosa in più. Una certa determinazione, insistere anche quando si dicono cose scomode che non hanno un successo immediato”.
Ma cos’è che dà allo scrittore questa capacità di vedere oltre? La scrittura stessa è strumento di conoscenza o verità?
MF: “Sarò arrogante, ma io ho un’idea chiarissima di come dovrebbe andare il mondo e voglio farla vedere anche agli altri”.
PB: “Scrivere è uno strumento per approfondire e studiare le cose. La scommessa che faccio sempre quando mi metto a scrivere qualcosa è di trovare uno sguardo diverso, che possa fare discutere”.
Qualcosa del tuo lavoro di cui vai particolarmente orgoglioso.
MF: “Arthur Miller diceva che in ogni testo c’è autobiografia. Io uso moltissimo la mia autobiografia, insistendo che non si deve accettare il compromesso, che si può essere coerenti e persistenti”.
PB: “Il riuscire a far interrogare il pubblico su cose che magari si danno per scontate o su cui si hanno risposte pronte”.
Una cosa di cui non vai orgoglioso del tuo lavoro?
MF: “Mai sbagliato [ride]. Sono arrogante e quello che ho fatto penso di averlo fatto bene”.
PB: “La parte commerciale del lavoro, la necessità di vendere, che è una cosa che mi viene molto difficile”.
Mario, puoi farci il nome di un giovane autore italiano da tenere sott’occhio?
MF: “Ho molta fede nel teatro italiano. Ho una lista di 22 nomi di scrittori italiani che considero molto bravi [la cerca tra le tante carte sulla sua scrivania e me la porge. Nell’elenco ci sono anche i nomi dei vincitori delle precedenti edizioni del premio a lui intitolato]. E meriterebbero di più. Spero sempre di poterli incoraggiare: non arrendetevi!”.
Paolo, un autore del passato che per te è particolarmente significativo?
“La risposta che mi viene più semplice è Dario Fo che è un autore che ho sempre tenuto d’occhio. Anche se ha alcune caratteristiche molto diverse dalle mie, ci sono aspetti in cui mi ritrovo molto”.
Come descriveresti il panorama teatrale italiano di oggi, dal punto di vista delle opportunità?
MF: “Purtroppo so da chi ci lavora che gli autori teatrali in Italia hanno poche possibilità di essere rappresentati e di comunicare il loro mondo. Qui in America si è più incoraggiati. Nelle mie conferenze dico sempre: esistono duemila grandi autori, non perdete tempo a leggerli tutti, sceglietene quattro e studiateli alla perfezione, imparerete tutto. I quattro sono Pirandello, Bertolt Brecht, Arthur Miller e Tennessee Williams, che tra l’altro abitava in quell’appartamento [indica fuori dalla finestra verso un’altra finestra, di fronte a quella del suo salotto]”.
PB: “Il panorama italiano è molto vario e questo rappresenta un’opportunità. Ci sono tante persone che hanno voglia di fare e c’è modo di creare collaborazioni. Ci sono, però, anche molte difficoltà perché girano pochi soldi, le produzioni sono spesso in mano a poche persone e non è facile lavorare”.
Se non facessi il drammaturgo cosa faresti?
MF: “Il maestro. Ho molto da dire e voglio comunicarlo”.
PB: “Io, in realtà, oltre a scrivere di teatro, nella vita insegno, sono professore di scuola superiore. Ma se avessi scelto un’altra espressione artistica forse la pittura è quella che mi affascina di più”.
Mario, fai una domanda e Paolo.
MF: “Hai fiducia negli autori Italiani, ne conosci alcuni che ammiri?”
PB: “Sì, per esempio Massimo Sgorbani e Ascanio Celestini: due modi molto diversi di intendere la scrittura e il teatro”.
MF: “Ottima scelta. Ascanio è eccellente ma qui in America non lo conoscono non è tradotto”.
PB: “Credo sia difficile anche perché è molto legato al linguaggio”.
Paolo, fai una domanda a Mario.
PB: “Faccio una domanda interessata: qualche consiglio per capire il mondo del teatro americano per chi volesse provare a portare il proprio lavoro qui?”
MF: “La chiave è la lingua. Tradurre in inglese apre molte più porte, ma non solo qui, in tutto il mondo. E non si tratta solo di lingua, ma di tipologia di linguaggio. Gli italiani sono più prolissi, parlano e scrivono tanto, sono polisillabici, invece gli americani sono più sintetici e precisi. Per gli americani è importante la chiarezza. Un mio testo che in italiano è di 120 pagine, nella sua traduzione inglese è di 80 pagine. Con l’inglese si riduce all’essenza, un’essenza che produce chiarezza. E la chiarezza è importante anche per creare un buon finale, che non vuol dire lieto fine: bisogna essere imprevedibili e dare un pugno in faccia al lettore o allo spettatore. La chiarezza aiuta a dare la botta, per essere ricordati. Pirandello diceva sempre che sperava che il suo pubblico discutesse per almeno 15 minuti dopo un suo spettacolo. Io spero di farli discutere per almeno cinque minuti”.